I rischi (e le responsabilità) di Giovanni Belardelli
Corriere della sera IERI E OGGI
20 agosto 2019 – 20:59
Si moltiplicano gli allarmi per un’emarginazione della storia che va facendosi sempre più marcata, fino al punto di configurarsi come una trasformazione epocale della nostra cultura. In Italia la denuncia del crescente disinteresse verso lo studio del passato si è focalizzata sull’eliminazione del tema di storia agli esami di maturità, che ha provocato un manifesto-appello di storici e intellettuali, ma in realtà il fenomeno accomuna le democrazie contemporanee.
Spesso, però, denunce del genere si limitano a criticare gli effetti (appunto, la marginalizzazione della storia) senza mettere bene a fuoco le cause di ciò che vanno denunciando. È chiaro ad esempio che l’eliminazione del tema di storia dalla maturità non è altro che la conseguenza ultima di una emarginazione di quella disciplina in atto da almeno due decenni (su questo fa acute considerazioni E. Galli della Loggia nel suo recente L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola, Marsilio). Dispiace dirlo, ma ha avuto buon gioco il ministro Bussetti a far notare che ormai il tema storico non lo sceglieva praticamente nessuno.
Le cause del declinante interesse, non per il passato genericamente inteso — si pensi al successo di libri e serie tv ambientate in un medioevo più o meno fantastico — ma per la storia come forma di conoscenza strutturata e attendibile di quel passato, sono tante. Dall’annullamento della dimensione del tempo operato dalla Rete, in cui tutto diventa virtualmente compresente, al politically correct che, soprattutto nel mondo anglosassone, si scaglia contro Cristoforo Colombo perché responsabile di un genocidio (dimenticando che viveva nel suo tempo, non nel nostro). Vi ha concorso indubbiamente anche quell’uso politico della storia che nel ‘900 è stato praticato un po’ da tutti i regimi politici, non escluse le democrazie. Ma in realtà anche gli storici, almeno in Italia, hanno avuto non poche responsabilità nel favorire la marginalizzazione della storia che ora (giustamente) lamentano.
Mi chiedo ad esempio quanti dei firmatari dell’appello che condannava la soppressione del tema storico alla maturità non abbiano bruciato il loro grano d’incenso al conformismo progressista che imponeva di criticare il ministro Salvini non per le ragioni per le quali meritava d’essere criticato, ma per il nuovo fascismo di cui sarebbe stato portatore. Certe denuncie della montante onda nera, del fascismo eterno che è in noi, ecc., cos’altro sono state se non un formidabile esempio di strumentalizzazione politica della storia che certo non ha contribuito a risollevare il declinante credito di questa disciplina?
E ancora, gli storici – non solo in Italia per la verità – hanno generalmente accettato che la storia venisse identificata, fin quasi ad esservi risucchiata, con quel dovere della memoria che domina da alcuni anni il discorso pubblico delle democrazie contemporanee. Ma memoria e storia sono cose assai diverse, per molti motivi e principalmente per uno: a differenza delle ricostruzioni del passato operate dagli storici, nel discorso pubblico sulla memoria si dà spazio soprattutto, se non esclusivamente, agli episodi negativi, ai crimini commessi da una collettività (la persecuzione e lo sterminio degli ebrei, la violenza nelle colonie, le foibe, ecc.).
Eppure sono stati pochi gli storici che hanno criticato gli eccessi di questa deriva memoriale, mentre la maggioranza si è forse illusa che ne avrebbe ricavato maggior spazio e credito per le proprie discipline. Si è trattato di un clamoroso errore di valutazione, che fa il paio — nel caso italiano — con l’entusiasmo con cui venne accolta vent’anni fa l’enfasi sul ‘900 imposta dal ministro Berlinguer: un’enfasi che, assegnando l’intero ultimo anno delle superiori al XX secolo, provocò l’approvazione dei contemporaneisti e di gran parte dell’establishment politico-culturale del Paese, ignari del fatto che così lo studio della storia riceveva invece un colpo gravissimo: cosa c’è di meno corrispondente alla logica di uno studio storico del passato di questa idea di estrarne una parte e cosiderarla più rilevante solo perché cronologicamente più vicina?
Sul Financial Times Edward Luce si è chiesto di recente quanto il disinteresse per la storia che si è affermato negli Stati Uniti (ribattezzati con amara ironia United States of Amnesia) non metta a rischio gli stessi regimi democratici, la cui affermazione ha in effetti coinciso con la codificazione della storia quale disciplina volta allo studio del passato (e non più come grande serbatoio di exempla, tratti per lo più dall’antichità classica, utilizzati per giustificare questa o quella decisione presente). Se il suo discorso ha un fondamento, dovremmo cominciare a vedere nel disinteresse per la storia (ma anche nel suo uso spregiudicatamente piegato all’attualità politica) un pericolo sul quale riflettere seriamente.