Dal Bollettino n. 13 – luglio 2020, Storia della famiglia.

Decenni fa Enzo Biagi, per una sua trasmissione, mi chiese come era la mia vita di donna allora sola. Gli spiegai che io non vivevo sola ma con mia mamma e mia sorella, eravamo una piccola famiglia molto unita: con la sua meravigliosa simpatia replicò, ma non c’è un marito, un padre, un uomo adulto, insomma siete sole.

Quello fu anche l’anno in cui finalmente venne approvato il nuovo diritto di famiglia (1975!) che tra l’altro riconosceva anche alle madri la patria potestà. Eppure anche per una persona di grande intelligenza come Biagi, ancora solo la presenza di un maschio, di un marito e padre garantiva l’esistenza di una famiglia. La famiglia continua ad essere al centro di preoccupazioni, definizioni, mutamenti, bizzarrie, rivendicazioni, condanne, convegni, arroccamenti, piazze, processioni, veglie. Adesso io vivo sola e sono sicura di essere la famiglia di me stessa, con cui mi trovo molto bene, sostenuta dall’affetto della famiglia dei miei nipoti. Oggi la legge consente coniugi monosesso che con varie soluzioni diventano anche genitori; le famiglie allargate con figli di coppie diverse e più padri e più madri aumentano, come quelle con un solo genitore presente, coppie che adottano bambini o li accolgono in affidamento. Ci sono persino famiglie esagerate, come in previsione di una guerra o di una pestilenza, con un solo padre e una sola madre che sovraintendono a ben 16 loro figli, come si è visto a un festival di Sanremo, mostrati come fenomeno da circo. 

Insomma la famiglia continua ad evolversi, ad arricchirsi di soluzioni, è in realtà l’aggregazione umana variabile che cerca di dare e ricevere in se stessa protezione, aiuto, compagnia, sopravvivenza, amore. Ma ancora in troppi temono quello che considerano un disordine, come gli adepti dei family day e del famoso convegno di Verona di qualche anno fa, per i quali la famiglia che salva le persone e la società è solo quella composta da un uomo, una donna, da uno a quanti figli mettono al mondo. E’ una immensa ipocrisia che consente alle persone più insicure e soprattutto a quelle che sfiorano il bigottismo di tracciare il confine tra la loro idea del bene e quella del male: loro sono il bene, tutto il resto è male. Sanno benissimo che non è così, ma si negano la verità che ogni giorno, per esempio la cronaca purtroppo racconta. La moglie fugge da casa con le sue tre figlioline stanca di botte e i di lei genitori non vogliono più saperne perché il marito può fare quel che vuole. Il papà per far dispetto alla mamma che lo vuole lasciare strangola i loro due figli. Due adolescenti con babbo e mamma probabilmente distratti, si drogano e muoiono, eccetera. E gli psicanalisti, gli psichiatri, gli psicologi? Se non ci fossero le famiglie in cui i figli crescono infelici non avrebbero lavoro. Ogni equilibrio, ogni serenità, ogni speranza nascono nell’infanzia in famiglia, ma anche ogni dolore, ogni mancanza, ogni paura, ogni fragilità. Il futuro lo crea la famiglia, che per secoli identica, ha combinato molti disastri, come ci raccontano la storia e la letteratura, Shakespeare e Caterina di Russia. 

L’evoluzione più recente della famiglia è quella delle donne straniere che dall’Europa orientale, dal Sudamerica, dall’Asia, dall’Africa mediterranea vengono in Italia e in tutta Europa per trovare lavoro: sono storie di miseria e di coraggio, di sacrificio, di responsabilità, di dignità. Celia dal Perù, Elena dall’Ecuador, Sugandi dallo Shrilanka, Katia dalla Georgia, Svetlana dall’Ucraina, Vera dalla Bulgaria, Maria dal Marocco, Esther dall’Eritrea; ne conosco tante di queste donne che a Milano, in Italia, in Europa lavorano come badanti e colf. Tranne le filippine, che sono quasi sempre in coppia, queste donne sono sole: avevano un marito, un compagno, un uomo, e adesso non più: sono morti, fuggiti, alcolizzati, in galera, i migliori sono rimasti a casa, disoccupati. Tutte queste donne che hanno trovato lavoro in Italia, arrivate in clandestinità, senza sapere l’italiano, senza un luogo dove rifugiarsi, si sono presto sistemate e adattate alle nostre vite, indispensabili nella cura degli anziani e dei bambini. Qui sole, mandano quasi tutta la loro paga a casa, per mantenere i figli e farli studiare: sono loro la famiglia, la responsabilità dei figli messi al mondo è tutta loro. Troppi paesi di grande civiltà sono miserrimi, con la solita separazione tra i ricchissimi e chi non ha nulla a partire dal lavoro: i maschi non reggono l’umiliazione, la sofferenza e rinunciano. Le donne no, partono all’avventura nel paese ignoto, lontano anche ore di aereo, rivedono i figli ogni due o tre anni, però è per loro che hanno accettato di andarsene, di lasciarli. La mondializzazione ha creato questa nuova famiglia dispersa che spesso deve fare a meno del padre, con la madre che da un altro continente affronta ogni sacrificio per dare un avvenire migliore ai figli che crescono senza madre e senza padre. Un tempo, da noi soprattutto nel Sud, i mariti emigravano in Germania, in Belgio per trovare lavoro, le mogli restavano a casa coi figli: c’era chi dopo un po’ smetteva di mandare soldi a casa e si rifaceva una vita lontano. Quelle donne italiane sole ad allevare i figli, queste donne straniere sole con lo stesso impegno: non tutte sono brave, non tutte oneste, alcune sono colte (la mia Svetlana, che è tornata a casa, lavava i pavimenti ascoltando Shostakovic), avevano in patria un buon impiego, prima che tutto fallisse, molte non ci vogliono bene, altre si affezionano a noi. Nelle nostre case la loro solitudine è infinita, il loro pensiero sempre lontano, dove i figli crescono, dove il tesoro di una casa di proprietà giorno per giorno si completa, il portico, il tetto, i mobili, il giardinetto, il pollaio, la stalla. Il futuro di una vita che non hanno vissuto.

Natalia Aspesi

Scrittrice, grande firma del giornalismo italiano, Natalia Aspesi tiene sulle pagine del Venerdì di Repubblica, una seguitissima rubrica, Questioni di cuore, attraverso la quale, da ormai trent’anni, dialoga con uomini e donne, mogli, mariti, amanti, fidanzati che sono stati o si sentono traditi, innamorati, impauriti, trasgressivi, violati, incompresi, abbandonati, vittime o agenti di pregiudizi.

Ha ricevuto migliaia di lettere che le chiedevano consigli e pareri e alle quali ha risposto in modo sempre arguto e profondo, mai banale, a volte feroce, sempre partecipe. La sua rubrica è diventata uno spettacolo teatrale, Questioni di cuore con Lella Costa, e anche un libro, Amore mio, ti odio.

Quello di Natalia Aspesi ci è sembrato senza alcun dubbio un osservatorio privilegiato al quale riferirsi per comprendere, attraverso le storie di vita, l’evoluzione dei costumi, non solo amorosi e sessuali, delle italiane e degli italiani nel corso degli anni e fotografare le diverse forme di famiglia del tempo presente. Di seguito il suo scritto, ironico, leggero, profondo come sempre. (a cura di Saura Rabuiti)