Imparare a vedere. Possiamo fidarci di ciò che vediamo? Laura Fontana

A Film Unfinished. Shtikat Haarchion (Il silenzio dell’archivio) di Yael Hersonski,

(Israele, 89’, 2010): un documentario unico girato dai nazisti nel ghetto di Varsavia

Laura Fontana, Mémorial de la Shoah di Parigi

Fotogramma di A Film Unfinished di Yael Hersonski,

© Itay Neeman and Belfilms

Questa è la storia di un film incompiuto, come dice il suo titolo, girato nel maggio 1942 nel ghetto di Varsavia da cineoperatori tedeschi, quasi sicuramente membri della PK, Propagandekompanie (Compagnia di Propaganda). Mai utilizzato dal Ministero della Propaganda nazista durante la guerra (per quanto ne sappiamo), il film venne poi dimenticato o abbandonato in un archivio in Germania dove verrà casualmente ritrovato da alcuni archivisti tedeschi nel 1954.

Fu nel quartiere Babelsberg a Postdam, nell’allora Germania dell’est, nei sotterranei di quella che era la sede degli archivi sulla guerra Repubblica Democratica Tedesca che furono scoperte le bobine del documentario in due scatole abbandonate sul pavimento. Un’etichetta con scritto Das Ghetto (Il ghetto) era l’unica indicazione fornita sulla pellicola. Grande fu la sorpresa degli archivisti nel rimontare le bobine e scoprire sullo schermo la vita degli ebrei nel ghetto di Varsavia in sessanta minuti di girato, senza suono[1], sottotitoli o altri elementi a commento delle immagini. Il documentario apparve subito come una scoperta di rara importanza, in quanto uno dei rari filmati di propaganda nazista ritrovato dopo la guerra[2] anche se del progetto che aveva portato alla realizzazione di quel filmato non si sapeva assolutamente nulla. Nemmeno le ricerche compiute negli anni successivi riusciranno a svelare i vari misteri che attorniavano la realizzazione della pellicola: qual era l’obiettivo di chi l’aveva commissionato? Qual era l’identità del regista e del cameraman?[3] Perché il film rimase incompiuto, non fu mai proiettato in pubblico durante la guerra e fu poi abbandonato senza essere distrutto? E come mai quel film sul ghetto era sopravvissuto alla guerra ed era rimasto in Germania, dopo che i sovietici avevano lasciato Berlino est per fare ritorno a Mosca portando in patria praticamente tutta la documentazione di fonte tedesca entrata in loro possesso? Quanto all’ultima domanda, in mancanza di risposte certe, possiamo solo ipotizzare che quella pellicola non sia stata forse ritenuta di importanza così strategica da essere portata in Urss come prova schiacciante dei crimini nazisti[4], o magari che ne esistesse una seconda copia.

Cosa mostrava esattamente il film «Das Ghetto» ? Si trattava di un documentario girato su iniziativa del Ministero tedesco della Propaganda nel ghetto di Varsavia, per un mese esatto, precisamente dal 2 maggio al 2 giugno.

Sequenza dopo sequenza, la pellicola mostrava la vita degli ebrei rinchiusi in quella prigione a cielo aperto, attraverso vari momenti quotidiani in cui eventi piacevoli e normali come un pranzo, uno spettacolo, una passeggiata, si alternavano e si contrapponevano a scene di fame e di miseria terribile. Il misterioso regista indugiava con particolare cura nell’enfatizzare il contrasto tra la minoranza di ebrei benestanti e ben nutriti e la massa della popolazione del ghetto, abbruttita dalla fame[5] e dalla sporcizia, composta da esseri cenciosi e tanto sofferenti da morire letteralmente per la strada. L’obiettivo della telecamera si soffermava più volte sull’atteggiamento di totale indifferenza degli ebrei più fortunati rispetto alla sorte della maggioranza degli internati del ghetto, tra cui c’erano moltissimi bambini che mendicavano un tozzo di pane o cadaveri abbandonati sui marciapiedi delle strade.

In mancanza di una sceneggiatura o di altri documenti di supporto[6] che potessero attestare l’esatta provenienza e la finalità del film, la visione di Das Ghetto suscitava reazioni contrastanti. Innanzitutto, il filmato era considerato e studiato come documento originale ed autentico sulla vita degli ebrei nel ghetto di Varsavia, realizzato a scopi di propaganda per la popolazione tedesca e occidentale. Lo spettatore – sebbene per decenni gli spettatori fossero solo ricercatori, archivisti e storici professionisti – era indotto a credere, da un lato, che uno degli obiettivi del documentario fosse quello di mostrare che, tutto sommato, una parte degli ebrei era riuscita a sopravvivere dignitosamente anche in condizioni di prigionia, quasi senza privarsi di nulla in tempo di guerra (le sequenze mostravano che gli ebrei cenavano con stoviglie raffinate, avevano appartamenti ben arredati, si distraevano assistendo a concerti o spettacoli, leggevano la Torah e rispettavano i rituali della propria religione, si facevano trasportare su carretti privati). In questo modo, tale percezione serviva probabilmente a smentire, o comunque a ridimensionare, la propaganda alleata in merito al disumano trattamento degli ebrei che sarebbe stato inflitto loro dai tedeschi. D’altro canto, invece, quella giustapposizione stridente tra il benessere e gli agi degli ebrei ricchi (comunque minoritari rispetto alla massa enorme che popolava il ghetto) e la profonda sofferenza degli ebrei poveri suscitava imbarazzo, stupore e anche vergogna, sebbene fosse chiaro che l’intenzione del regista era quella di riattivare nella memoria dello spettatore (il pubblico della popolazione tedesca) stereotipi antisemiti ben radicati nell’Europa dell’epoca. Gli ebrei erano percepiti come esseri moralmente corrotti, avidi di denaro e di privilegi, insensibili al dolore degli altri, per i quali si poteva avere solo disprezzo dal momento che non si curavano nemmeno di prestare soccorso ai propri compagni.

Insomma, il film pareva suggerire che per un motivo (l’avidità immorale) o per l’altro (l’abbruttimento animalesco), gli ebrei erano causa del proprio male, cioè destinati ad una “naturale” distruzione fisica, proprio in virtù della loro natura e del loro comportamento e pertanto era inutile provare compassione per loro.

Ritenuto dagli storici degli anni Cinquanta e inizio Sessanta come una fonte primaria di grande importanza e come una preziosa testimonianza della vita degli ebrei nei ghetti, seppur dai risvolti scioccanti per il già citato contrasto tra ricchi e poveri, il filmato originale fu donato al nascente Museo di Yad Vashem di Gerusalemme[7], affinché potesse essere studiato dai ricercatori della Shoah. Tuttavia per molto tempo il documentario non verrà mai mostrato in pubblico, salvo in sporadiche occasioni (la prima volta nel 1961) e mai integralmente, ma selezionando quei passaggi che mostravano la grande sofferenza degli ebrei del ghetto, tralasciando la rappresentazione degli ebrei più benestanti che sollevava questioni morali imbarazzanti[8].

Qualche anno dopo il ritrovamento delle bobine, avvenne un altro fatto significativo per la ricostruzione del progetto filmico. Nel 1961, un uomo polacco, di cui non è stata resa nota l’identità, consegnò agli archivi cinematografici della Germania occidentale 35 mm di pellicola contenenti 7,5 minuti di riprese filmate dai nazisti tra il 1941 e il 1944, tra cui alcuni minuti di sequenze proprio nel ghetto di Varsavia nel maggio 1942. Il misterioso donatore sosteneva di essere venuto in possesso di quella pellicola da due nazisti nel 1943, proprio all’interno del ghetto, circostanza a dir poco controversa e non verificata per mancanza di prove sufficienti. Eppure, le sequenze girate nel 1942 nel ghetto di Varsavia erano identiche a quelle contenute nelle bobine ritrovate nel 1954, ma mostravano sorprendentemente quelle scene riprese esattamente al contrario (per esempio da destra a sinistra anziché da sinistra a destra).

Ma per comprendere pienamente la vera natura del documentario bisognerà spostarsi oltre i confini europei e attendere la fine degli anni Novanta con un terzo ritrovamento di pellicola. Nel 1998, il ricercatore cinematografico britannico Adam Wood stava cercando in una base militare americana un filmato sulle Olimpiadi di Berlino del 1936 quando si imbatté casualmente in alcune bobine, anch’esse racchiuse in scatole recanti la scritta “Il ghetto”. Una volta proiettati, quei fotogrammi mostrarono trenta minuti di sequenze girate dai nazisti nel 1942 nel ghetto di Varsavia, le stesse già conosciute dagli storici, ma stavolta girate più volte ciascuna, ogni volta con un “ciak diverso” e con angolature differenti, in cui gli ebrei figuravano come attori costretti a recitare se stessi nel ghetto, talvolta con una parte precisa, più spesso come figuranti di una massa a cui venivano impartite direttive da un misterioso regista. Le sequenze filmate apparvero quindi ben lontane da essere riprese girate spontaneamente nel ghetto e documento oggettivo della vita degli ebrei in quel mese di maggio 1942, ma si mostrarono in tutta la loro drammaticità come vere e proprie messe in scena teatrali, artificialmente allestite e girate sotto la minaccia delle armi. Ad esempio, sparando per aria i nazisti provocavano il panico tra la folla di persone costrette a radunarsi in un punto del ghetto e la paura le costringeva a muoversi velocemente in un’unica direzione. Oppure venivano scelte intenzionalmente le persone più sofferenti, abbruttite dalla fame e dalle malattie per essere riprese in primo piano, o ancora la telecamera enfatizzava con zoom e primi piani le condizioni di mancanza di igiene, promiscuità e sovraffollamento, al fine di suscitare disgusto e orrore nello spettatore.

Grazie ai vari ritrovamenti e alla ricomposizione di tutta la pellicola girata fu possibile alla soglia degli anni Duemila rileggere criticamente il filmato, smontandone l’idea di oggettività assoluta e svelando l’opera di manipolazione della verità attuata dai nazisti che avevano costretto le proprie vittime a rappresentare scene di vita e di morte secondo un copione prestabilito.

Dopo tanti anni, appariva evidente che Das Ghetto non era affatto una fonte documentaria da considerarsi autenticamente come pezzo di archivio, cioè girato spontaneamente tra la popolazione internata allo scopo di fissare sulla pellicola le immagini di vita e di morte degli ebrei, ma era, invece, un film diretto con scopi di propaganda precisi, mescolando riprese verosimili (la fame, la sofferenza, i morti del ghetto erano autentici) con riprese fittizie e inventate ad arte (il benessere nel ghetto e l’atteggiamento di crudele indifferenza), il tutto montato in una combinazione di primi piani e di sequenze a tutto campo che alteravano profondamente quella supposta autenticità del documentario.

Per portare a conoscenza del grande pubblico il documentario in tutta la sua complessità, occorrerà però aspettare che nel 2006 una giovane israeliana, Yael Hersonski, studentessa universitaria di cinematografia, si imbatta anch’essa in quelle bobine e, dopo anni di accurate ricerche storiche, decida di rimontarle fedelmente mediante una ricostruzione filologicamente accurata che intitolerà A Film Unfinished (Un film incompiuto).[9] Per rendere, tuttavia, maggiormente comprensibile l’opera di manipolazione dei nazisti, la regista decise di inserire nel montaggio integrale della pellicola alcuni interventi: un testo letto fuori campo da un’attrice[10], alcuni estratti dal diario di Adam Czerniakow[11] e riflessioni dello storico Emmanuel Ringllebaum, in modo da consentire allo spettatore di inserire la visione in un contesto storico preciso: quello del ghetto di Varsavia filmato solo poche settimane prima dell’inizio delle grandi deportazioni verso il centro di sterminio di Treblinka. Gli ebrei che guardano l’occhio della telecamera, sorridenti perché costretti a farlo, oppure sfiniti dalla fame, sono già condannati a morire nelle camere a gas dei centri di sterminio. Chi li riprese forse non ne era, allora, pienamente al corrente, ma chi commissionò e diresse il film certamente non poteva ignorarlo.

Yael Hersonski rimase particolarmente sconvolta dalla manipolazione di verità operata dai nazisti attraverso il film e si interrogò a lungo sull’inevitabile perdita della verità storica una volta scomparsi tutti i testimoni dell’epoca. Per questo scelse di coinvolgere cinque sopravvissuti del ghetto[12] di cui A Film Unfinished non rivela il nome – che vennero filmati mentre guardavano quel filmato per la prima volta, commentandolo alla luce dei propri ricordi e rivelando, scena dopo scena, la finzione operata dai cameramen tedeschi (“Dei fiori nel ghetto? Se ci fossero stati dei fiori ce li saremmo mangiati tanto avevamo fame!”, dice una donna che fu internata da bambina con la sua famiglia).

Ritenendo indispensabile, secondo la migliore deontologia professionale del mestiere del ricercatore storico, incrociare il punto di vista delle vittime con quello dei carnefici, o comunque degli attori del filmato di quei trenta giorni nel ghetto di Varsavia, Yael Hersonski inserì anche la lettura di alcuni brani tratti dai rapporti della SS Heinz Auerswald, commissario del ghetto di Varsavia dalla primavera 1941 al novembre 1942 e la testimonianza di Willy Wist, l’unico cineoperatore di cui fu possibile scoprire l’identità[13]. Wist, morto alla fine degli anni Novanta, aveva rilasciato un memoriale nell’ambito delle indagini condotte nel 1960 dalle autorità della Germania federale su Heinz Auerswald[14]. Il suo punto di vista fu quindi inserito nel filmato della Hersonski attraverso un espediente cinematografico, ovvero la recitazione di un attore professionista[15], ripreso solo parzialmente in volto. Le parole della sua testimonianza più che il volto dell’attore, rendono Wist quasi una fotocopia di Eichmann al suo processo: un uomo qualunque, mite, educato ma molto evasivo, incerto in maniera imbarazzante su alcuni elementi dell’epoca, che si dichiarava ignaro sia del vero obiettivo di quelle riprese che del tragico destino che si preparava di lì a poco per gli ebrei del ghetto.

La scena in cui Rüdiger Vogler interpreta Willy Wist in A Film Unfinished

© Itay Neeman and Belfilms

Uno zelante collaboratore del Reich che dichiarava di avere eseguito le direttive impartite a lui e ai suoi colleghi cineoperatori da un alto ufficiale delle SS, di cui sosteneva di non ricordarsi nemmeno il nome (“era soprannominato il fagiano”).

Presentato per la prima volta nel 2010 al Sundance Film Festival negli Stati Uniti, dove si aggiudicò un premio della critica, A Film Unfinished di Yael Hersonski fu quindi proiettato nel corso dell’anno in Canada, Israele, Francia, Germania e Polonia, per arrivare poi in Italia, grazie al sostegno del Pitigliani Kolno’a Festival.

Ignorato, salvo poche eccezioni, dai media nazionali e dalla comunità scientifica degli specialisti della Shoah, privo di un adeguato sostegno alla diffusione e alla comunicazione, purtroppo questo film incompiuto sul ghetto di Varsavia resta ancora sconosciuto alla maggioranza degli italiani e pochissime sono le città italiane che hanno organizzato una proiezione del documentario (Roma, Rimini, Ferrara e Venezia).

Eppure, la straordinaria importanza del lavoro di Yael Hersonski, sia per averci restituito un pezzo di archivio nazista sul ghetto, sia per le domande metodologiche e filosofiche che la sua opera solleva interrogando a fondo il nostro modo di rapportarci alle immagini della Shoah, imporrebbe da parte di noi tutti maggiore attenzione, sensibilità e rispetto. Il film andrebbe diffuso nei cinema, sulle reti televisive e nelle scuole, discusso e commentato in modo da aprire un dibattito sui tanti temi connessi al film stesso.

A meno che, in fondo, ci vada bene così: continuare a guardare ogni anno per il 27 gennaio le stesse immagini di Auschwitz e dei lager, talmente ridondanti e svuotate del loro contesto da risultare del tutto opache e prive di una qualunque capacità di interrogarci profondamente.

Continuare a guardare senza vedere niente, non è forse la peggiore condanna per una società che ha fatto dell’immagine e del visibile un modus vivendi?

 

  1. Yael Hersonski afferma nelle sue interviste che da numerose ricerche effettuate si è ragionevolmente convinti che una banda sonora del film esistesse ma sia andata perduta.

  2. Si stima che almeno il 90% dei documenti nazisti sulla persecuzione e lo sterminio degli ebrei sia stato intenzionalmente distrutto prima della fine della guerra per cancellare le prove dei crimini perpetrati, oppure sia andato disperso.

  3. Oggi sappiamo che i cineoperatori del film furono due.

  4. Rispetto ai filmati girati dai sovietici alla liberazione dei campi nazisti dell’est europeo (Majdanek, Auschwitz, ecc) quelle immagini del ghetto potevano sembrare delle prove meno gravi dei crimini perpetrati dai nazisti.

  5. Solamente nell’arco di un anno, il 1941, circa 43.000 persone (il 10% della popolazione del ghetto di Varsavia) muoiono di fame e di stenti.

  6. Salvo il fatto che delle riprese del film ne parlava Adam Czerniakow nel suo diario, confermandone dunque l’autenticità. Czerniakow fu nominato Presidente del consiglio ebraico (Judenrat) del ghetto di Varsavia. Tenne un diario durante la sua prigionia, raccontando le tragiche condizioni in cui gli ebrei erano costretti a vivere. In alcuni passaggi, evoca le riprese cinematografiche nel ghetto. Per evitare di essere costretto a collaborare coi tedeschi nello stilare le liste degli ebrei del ghetto da deportare, Czerniakow si suicidò nel luglio 1942 con una capsula di cianuro.

  7. Il Memoriale e Museo di Yad Vashem, intitolato “al ricordo dei martiri e degli eroi dell’Olocausto” fu istituito nel 1953 con legge del Parlamento israeliano. Ha sede a Gerusalemme ed è attualmente il più grande e il più importante museo della Shoah al mondo.

  8. In tutti i ghetti istituiti dai nazisti, e in maggiore misura in quelli più grandi come quello di Varsavia e di Lodz dove furono imprigionati anche migliaia di ebrei provenienti dalla Germania e dal Protettorato (cioè non solo polacchi), le differenze sociali ed economiche tra gli internati furono consistenti, sebbene fossero destinate ad azzerarsi nel giro di poche settimane di prigionia. Anche la minoranza di ebrei benestanti fu infatti costretta a vendere tutti i suoi vestiti e oggetti al mercato nero del ghetto per sfamarsi. In questo senso, quindi, il film non mostrava nulla di falso. Ma ciò che appare come osceno e moralmente perverso è il modo con cui i nazisti scelsero di mostrare una presunta indifferenza dei più benestanti nei confronti dei più poveri, spostando la responsabilità dai carnefici, che avevano creato le condizioni disumane del ghetto, alle vittime, che vi erano finite imprigionate. E’ forse banale ricordare che la mortalità nel ghetto di Varsavia fu talmente alta che per la popolazione imprigionata senza possibilità di scampo fu inevitabile abituarsi alla vista della sofferenza e della morte, senza poter materialmente fare nulla di concreto per cambiare le cose.

  9. Il sito del film con tutti i materiali informativi (in inglese) al seguente indirizzo online: http://www.afilmunfinished.com/

  10. In realtà si tratta della musicista israeliana Rona Kenan.

  11. In queste sequenze filmate, Czerniakow è ripreso da una troupe della propaganda tedesca per i cinegiornali dell’epoca. Viene mostrato l’incontro tra il presidente del Judenrat e un gruppo di abitanti del ghetto incaricati di presentare alcune richieste della popolazione al Consiglio. http://www.ushmm.org/wlc/it/media_fi.php?MediaId=592

  12. Tramite un annuncio diffuso in Israele, fu possibile contattare nove sopravvissuti del ghetto di Varsavia, che all’epoca erano ragazzini o adolescenti, con un’età sufficiente per potersi ricordare qualcosa delle riprese. Dopo un’attenta spiegazione degli effetti psicologici devastanti che tale visione avrebbe potuto produrre su di loro (che nel ghetto avevano tutti perso la loro famiglia e nelle riprese avrebbero potuto vedersi filmati o vedere i propri cari), solo cinque confermarono la disponibilità ad essere filmati durante la visione di “Das Ghetto”: 4 donne e un uomo.

  13. La sua identità fu scoperta nel 1962 da un ricercatore tedesco che ritrovò negli archivi polacchi di Varsavia un documento datato maggio 1942 che autorizzava Wist a entrare nel ghetto per effettuarvi delle riprese cinematografiche.

  14. Nel dopoguerra, Heinz Auerswald fu indagato per la sua responsabilità diretta nei crimini nazisti perpetrati nel ghetto di Varsavia. Sottoposto a inchiesta nel 1960, non venne mai processato per mancanza di prove, dunque non scontò alcuna condanna e visse tranquillamente fino alla sua morte nel 1970.

  15. Si tratta dell’attore Rüdiger Vogler.