La patria anche in cucina, di Ilaria Porciani

Dal Bollettino di Clio n. 13/2020 Storia della famiglia

Ilaria Porciani: Università degli Studi di Bologna, Dipartimento di Storia Culture e Civiltà

  1. “Famiglia e nazione sono principi compagni e indissolubili”.

“L’uomo fa sempre parte di una nazione come fa parte di una famiglia e ne sente l’influenza misteriosa in tutta la sua maniera di pensare, di sentire, di agire e di parlare. Ciascuno tiene alla propria nazione come tiene alla propria famiglia […]. E’ per questo che il sentimento della nazionalità è sacro.” [1] Così scriveva nel 1838 il filosofo e giurista Heinrich Ahrens nel suo corso di diritto naturale che ebbe moltissime edizioni dal 1838 in poi. Pochi anni dopo, nel 1851, l’esule napoletano Pasquale Stanislao Mancini, appena giunto nella ospitale Torino dopo la rovina del Quarantotto napoletano, affermava: “Famiglia e nazione sono principi compagni e indissolubili.”[2] Con poche varianti, potremmo ritrovare espressioni simili in molti paesi e in diversi contesti.

Nel passaggio dall’Antico Regime all’età che definiamo contemporanea la famiglia divenne uno dei luoghi centrali della costruzione della nazione. Al tempo stesso, la nazione costituì un punto di riferimento costante per l’orientamento della vita domestica e dei compiti – diversi e gerarchicamente distinti – dei coniugi.

La comunità immaginata della nazione fu presentata – proprio come quella familiare – come una coesa comunità di discendenza: il popolo fu proposto come un tutto all’interno del quale le differenze sociali sfumavano mentre veniva invece enfatizzato con forza il nesso che teneva insieme il nuovo corpo della nazione. Non per caso si pensò al sovrano, in più di un caso, come al padre della patria, e i cittadini si sentirono come ‘fratelli’ come nelle parole del Canto degli italiani (1847) di Goffredo Mameli.

Non sto parlando di come andarono veramente le cose, ma di quello che accadde a livello discorsivo, di un orientamento che influenzò in modo profondo l’ethos dei ceti medi e delle bambine e dei bambini scolarizzati di forse tutti i paesi europei, e di quasi tutte le famiglie politiche. Vi furono ovvie differenze e dovuti distinguo, ai quali conviene almeno rapidamente accennare. All’interno della medesima costruzione discorsiva, paesi monarchici e repubbliche accentuarono aspetti diversi. Inoltre, laddove l’istituzione ecclesiastica sposava la causa del movimento nazionale – come fece la Chiesa evangelica in Germania – si profilarono forti sinergie. In Italia, invece, dove la Chiesa cattolica prese le distanze dal movimento nazionale, il terreno della famiglia fu proprio quello sul quale si scontrarono, con forza, richieste e imperativi liberali e cattolici. Alle donne i liberali chiesero di essere madri forti di eroici cittadini mentre i sacerdoti additavano loro a modello una totale distanza dalla politica e un’educazione del cuore e della fede.

  1. Alle origini: tra Rivoluzione Francese e Risorgimento italiano.

Il tornante fondamentale per lo stabilirsi di una connessione forte tra emozioni e discorso simbolico fu costituito dalla Rivoluzione francese, quando l’espandersi della sfera pubblica e l’economia degli affetti posero al centro la parola.

Nella Francia rivoluzionaria, dove già la Marsigliese presentava i nemici come coloro che avrebbero sgozzato le mogli ed i figli, la Costituzione dell’anno III parlava chiaro: non si poteva essere buon cittadino se non si era anche buon marito e buon padre. Lo ribadiva la Costituzione bolognese del 1796: “Non è buon cittadino chi non è buon figlio, buon fratello, buon padre, buon amico, buono sposo.” La nazione repubblicana si rappresentava come una grande famiglia: ben presto anche le altre nazioni monarchiche, in fieri o già fatte, e imperi che tuttavia condividevano questa nuova retorica si sarebbero rappresentate in questo modo.

Ugo Foscolo, che si impegnava nel progetto di una costituzione per le isole Ionie, scriveva: “non può governare lo Stato qualunque non abbia dato prova di saper governare la propria famiglia.”[3] L’Ortis traduceva questa attenzione a un culto anche familiare della nazione in romanzo epistolare letto e riletto da giovani e giovinette come un breviario. Nella lettera del 14 marzo il protagonista scriveva: “Quando anche la cara amica fosse madre de’ miei figliuoli, i miei figliuoli non avrebbero patria: e la cara compagna della mia vita se n’accorgerebbe gemendo.” Persino le gioie familiari erano impossibili se la patria non era libera. Lo stesso concetto era alla base della fortuna della grande icona patriottica dei Vespri siciliani: gli occupanti (in questo caso i francesi) non solo violavano la patria, ma anche le sue donne e il sacro vincolo familiare.

Questi orientamenti circolarono in modo largo – in Italia – specie in ambito democratico e mazziniano: basti ricordare il celebre motto Dio, Patria e Famiglia. Soprattutto a partire dal 1848, in Italia come in altre nazionalità oppresse, l’amore santo tra un uomo e una donna sarebbe stato soltanto quello legato alla nazione e vissuto dentro i suoi confini (anche di sangue). L’amore per lo straniero – tanto più se occupante o nemico – sarebbe stato considerato, prima ancora che riprovevole, obbrobrioso, quasi contro natura, e comunque infausto.

In un mondo che con la Rivoluzione francese si era scoperto nuovo e aveva gettato parrucche e crinoline persino il senso dell’onore, nell’Antico Regime appannaggio della nobiltà di sangue, cambiava di segno. I nuovi quarti di nobiltà si conquistavano attraverso il patriottismo e l’onore era quello del cittadino-soldato che aveva dimostrato di essere un eroe sul campo di battaglia. La famiglia biologica dell’eroe avrebbe dovuto a sua volta mostrarsi degna di chi l’aveva resa illustre sacrificando la propria vita o la propria libertà per la patria, così come alla famiglia nazionale si chiedeva di essere all’altezza dei suoi eroi.

La nuova nobiltà della nazione insomma doveva essere rispettata e onorata dalla discendenza: era un titolo di vanto per i figli, i fratelli o le sorelle del martire o del patriota, ma creava anche un forte obbligo morale. Il disciplinamento nazionale e il disciplinamento domestico andavano di pari passo e si sostenevano a vicenda, disegnando una serie di obbligazioni dettate da un nuovo senso del dovere verso la famiglia comune: non c’era spazio per la leggerezza.

Negli stati monarchici, inoltre, la famiglia nazionale aveva un padre buono al quale si doveva obbedire, come lo si doveva fare nei confronti del padre biologico tra le mura domestiche. E questo padre era il monarca. Nel presentare il codice Pisanelli del 1865 l’insistenza sul nesso strettissimo tra la famiglia e la patria nazionale era chiara: “Noi amiamo meglio raffigurare nella famiglia una piccola monarchia, di cui il padre è sovrano.”[4] Alle donne era riservato un ruolo forte, quello di educatrici dei giovani cittadini, ma anche un modello subalterno e ancillare.

Un’analisi comparata ci mostrerebbe la rilevanza di questo intreccio forte tra famiglia e nazione anche in ambiti non italiani. In primo luogo dobbiamo pensare agli Stati Uniti della “maternità repubblicana” (Republican Motherhood) dove la famiglia è proposta come il nucleo di un processo di ‘nazionalizzazione’ e insieme di ‘incivilimento’ i cui versanti, inclusivo ed esclusivo, sono strettamente collegati.

Uno sguardo alla Germania farebbe emergere il modo in cui la famiglia della nazione viene rappresentata attraverso icone come quella della Regina di Prussia Louise, moglie e sposa amorevole, una sorta di madonna del soccorso nei cammei della guerra di liberazione antinapoleonica. Oppure metterebbe in evidenza un altro elemento robusto. Rivelerebbe cioè come il padre della lingua e della nazione, oltre che della religione protestante, Lutero, venisse improvvisamente rappresentato con singolare frequenza e con la forza di un precetto tra le mura domestiche, nel momento in cui suona in famiglia, con attorno moglie e figli, con pacata compostezza e con gioia misurata e modesta.

  1. Dalla pittura al cinema.

L’iconografia patriottica, che ben presto sarebbe diventata popolare grazie ad incisioni abbordabili anche per chi non aveva grandi mezzi, testimonia di questa svolta in senso nazionale di un discorso pubblico diretto anche al privato. Negli stati nazionali esistenti o che aspiravano a diventarlo (in Grecia, in Polonia, in Italia e in Germania), ma anche negli imperi come quello britannico, la letteratura e le riviste per i ceti medi insistono costantemente sulla dimensione familiare del patriottismo. La famiglia borghese posa sotto il ritratto del padre della patria. Mogli e figli si irrigidiscono negli studi fotografici mentre si assiepano attorno al reduce, sul cui petto fanno bella mostra di sé le medaglie. Oppure esibiscono inequivocabili segni di fedeltà alla nazione, magari nascosti nei colori che si combinano tra una camicia e il risvolto di un mantello, come nel celebre Bacio di Francesco Hayez. Nel ritratto dei Fidanzati, dipinto da Giovanni Fattori tra il 1860 e il 1861, la manica dell’abito della donna è ornato da nastri tricolori. Nel quadro di Girolamo Induno, Triste presentimento, la fanciulla povera che attende il ritorno del fidanzato dal fronte (e si intuisce che il giovane è ferito o morente) siede su un letto sopra il quale fa mostra di sé non un’immagine sacra ma un ritratto di Garibaldi. In Polonia l’eroe è Tadeusz Kościutsko. Nei quadri di genere sempre di Induno i bambini, sotto gli occhi vigili della madre o da soli, giocano alla guerra con tamburi trombe berretti militari e talvolta con piccoli fucili, e hanno con sé la bandiera.

Quel dettato patriottico che dava spazio alla famiglia anche nei testi dei giuristi si traduceva insomma in modo molecolare, efficace e diffuso in elementi che entravano a far parte della vita quotidiana, e che entravano nella memoria sotto forma di poesie o di canzoni, magari destinate all’amata e insieme alla patria per la quale si deve combattere, come ha sottolineato Emilio Franzina.

Ignorati dagli storici del nazionalismo nelle prime fasi degli studi, anche questi aspetti, definiti a torto con condiscendenza minori, attirano oggi l’attenzione degli storici che – sulla scia di Michael Billig – studiano il nazionalismo banale. Le collezioni di ventagli patriottici italiani, o di piccoli pegni privati che rinviano al culto della nazione oppressa in Polonia, come quelli raccolti in collezioni private esposte nel museo della città di Varsavia (bottoni, fazzoletti, oggetti di uso personale) rinviano con i loro colori e con i loro simboli alla appartenenza nazionale, che pertanto non si traduce soltanto in idee, ma in pratiche e in cose.

La Rivoluzione Francese costituì indubbiamente una cesura cruciale per il mondo occidentale, del quale qui ci stiamo occupando. Erano i confini nazionali a definire con precisione le nuove mappe mentali nella pittura di storia, non soltanto nei nascenti musei nazionali o nel romanzo. La nazione entrava con forza anche nella vita privata, informando di sé spazi intimi e domestici. Questi in tal modo si connotarono sempre più come politici e di fatto nazionali.

Per fare qualche ulteriore esempio possiamo evocare quelle famiglie patriottiche che conservavano all’interno della casa i ritratti di sovrani regnanti o del passato (per la Prussia la regina Louise, in Gran Bretagna la Regina Vittoria e il principe Alberto, in Italia Vittorio Emanuele, il principe Umberto e la Regina Margherita). In questi pantheon domestici occupavano un posto altrettanto importante gli eroi – tra tutti, per gli italiani e particolarmente per i democratici, Garibaldi – o le scene del Risorgimento immortalate nelle serie di cartoline, prodotte in occasione del Cinquantenario della proclamazione del Regno, che magari venivano appese al muro o appoggiate sugli scaffali di abitazioni private, troppo modeste per possedere quadri, a ricomporre un puzzle nazionale di fatti eroici e un’immagine simbolica forte.

I quadri di genere, come abbiamo visto, testimoniano di questo mutamento. Ma a rammentarcelo è anche il nascente cinema muto, che insiste sul tema del rapporto tra famiglia e nazione. A partire dal 1909 un film come Il piccolo garibaldino (che si affiancò alla prima pellicola italiana dedicata a La presa di Roma) infiammava l’immaginario intrecciando per l’appunto le scene eroiche di battaglie con l’immagine di una famiglia e il sogno del fanciullo eroe.

  1. Infine gli oggetti: dalle reliquie degli eroi ai ricettari domestici.

Da qualche anno, ricerche di storia culturale hanno cominciato a concentrarsi sugli oggetti privati, lettere e reliquie private donate dalle famiglie dei martiri del Risorgimento. Anche questi oggetti che possono apparirci sterili, polverosi e distanti assumono altri significati se ripensati all’interno di circuiti di dono. Pensiamo per esempio a musei del risorgimento, nei quali confluirono lettere private inviate dai martiri a madri e fidanzate, reliquie dei loro abiti e dei loro corpi, che venivano a prendere il posto di quelle cattoliche nella costruzione di una sacra ritualità della nazione.

In anni ancora più vicini a noi gli studiosi hanno cominciato a ricercare i segni del nazionalismo banale anche in ambiti meno alti e solenni. Sulla scia della ormai sterminata produzione di studi sull’alimentazione hanno cominciato a indagare i segni della nazione non soltanto tra le pareti domestiche, ma anche in quello che spesso era il cuore della vita familiare: tra la cucina e la tavola da pranzo. Proviamo a guardare le cose più da vicino.

Fin dai tempi antichi e in modo evidente tra l’età moderna e la fine dell’Antico Regime, il cibo – insieme ai simboli visibili del potere, agli abiti, ai gioielli e alle feste – aveva svolto una funzione importante nel marcare in modo più netto la linea di confine tra il sovrano e i sudditi oppure tra i nobili, la ricca borghesia e il popolino. A questo servivano i fastosi banchetti, così come il consumo e l’offerta agli ospiti illustri di vivande prelibate e spezie esotiche, diverse da quelle accessibili alle masse.

A partire dalla Rivoluzione tutto questo universo si sgretola e si ricostituisce diverso, mentre comincia a prendere forma una cucina nazionale. Non mi interessa tanto soffermarmi sul fatto che prenda forma una linea di confine tra i paesi che mettono in piedi una cucina media, di orientamento nazionale, e quelli che conservano in modo netto uno scarto cetuale anche nel discorso e nelle pratiche alimentari. Voglio invece soffermarmi sulla sovrapposizione tra il concetto di cucina di casa (ovvero di famiglia) e cucina nazionale. Per quanto sia difficile generalizzare, mi interessa condividere alcune riflessioni sul formarsi di cucine, e di conseguenza di libri di cucina, e di discorsi sulla gastronomia, di taglio fortemente nazionale.

Una ricognizione a volo di uccello (che dunque non può soffermarsi su particolarità locali e scarti) ci restituisce a grandi linee un fenomeno nuovo: l’affermarsi di una pluralità di cucine nazionali le quali disegnano mappe mentali che una volta di più confermano i confini dei paesi e aiutano a pensare la nazione come un insieme chiuso. Due sono i presupposti: da un lato la necessità di rendere meno percepibili i confini locali, che pure caratterizzavano le tradizioni gastronomiche delle varie città e delle varie zone; dall’altro l’enfatizzazione dei confini che dividono la nazione di appartenenza dai paesi limitrofi, il che rende questi confini noti e sperimentati anche su un terreno di per sé caratterizzato da scambi e ibridazioni. In questo modo si innesca un deciso processo di nazionalizzazione di piatti e ricette che erano stati frutto di combinazioni tra ingredienti di provenienze diverse, e soprattutto di innesti, incroci e lunghe condivisioni, e che non rispettavano certo le linee di confine nazionali esistenti o auspicate.

Questo processo fu guidato da autori e autrici di ricettari domestici che vennero rapidamente connotandosi in senso nazionale. Rivolti per lo più alle donne (alle cuoche o alle padrone di casa borghesi, che a loro volta dovevano istruire le cuoche), e sempre più spesso scritti da donne, questi ricettari, e i volumi di economia domestica che ad essi talvolta si accompagnavano, puntavano a pensare la nazione anche all’interno di pratiche quotidiane e familiari e viceversa a orientare le pratiche e gli insegnamenti domestici verso una appartenenza nazionale. Cominciava così a prender forma quell’orientamento che sarebbe emerso con forza ben maggiore nella stagione – che qui non tocco – dei totalitarismi e per l’Italia dell’autarchia. I cibi ‘altrui’ cominciarono ad essere stigmatizzati, mentre si iniziava a contestare la preminenza esemplare della cucina francese.

Per essere completa, questa storia dovrebbe andare oltre i confini di Europa e ricordare di nuovo, almeno per sommi capi, il ruolo decisivo della Republican Motherhood americana nel definire l’opera di ‘civilizzazione’ dei coloni (e delle madri di famiglia) e nel marcare una linea di demarcazione da un lato verso i britannici e dall’altro verso i nativi e soprattutto gli schiavi afroamericani, e dovrebbe rammentare almeno il ruolo che ebbe un personaggio come Sarah Josepha Hale nel dar forma alla festa del Thanksgiving attorno a un rito e a una tavola imbandita con quello che presto sarebbe diventato il tradizionale tacchino (volatile americano), o il Godey’s Lady’s Book (1865): la bibbia domestica della massaia americana.

Un po’ dovunque, in Europa, il vento della nazione raggiunse focolari, cucine, e tavole apparecchiate. La ricerca, che solo da pochi anni si è orientata verso questi temi, comincia a scoprire elementi interessanti, che fanno percepire il linguaggio (quasi) comune dei nazionalismi europei anche in cucina e attorno al desco. La tradizione nazionale venne così percepita all’interno anche attraverso la cucina, che a sua volta entrava di diritto all’interno del patrimonio delle tradizioni del paese, studiate dai folkloristi. Sapori, vapori e profumi che si alzavano dai fornelli fornirono alle emozioni un elemento in più da condividere all’interno della nazione: dentro quella comunità anche domestica, immaginata e sentita come propria. L’invenzione della tradizione abbracciava così anche pratiche quotidiane e gastronomiche e passava dal tangibile all’intangibile. Diventava un sapere e saper fare condiviso. Si traduceva in un piatto da consumare e gustare in ambito domestico (pensiamo al tradizionale pot au feu francese, simbolo della condivisione del cibo in famiglia e sineddoche dello stare insieme della famiglia nazionale). Questa tendenza a marcare con forza le caratteristiche nazionali della cucina si manifestò con forza ancora maggiore nei luoghi alti della rappresentanza. Con l’eccezione dell’Italia, la cui corte era troppo francesizzante per rinunciare ai termini della haute cuisine di una Francia alla quale aveva guardato per molto tempo e di cui aveva condiviso la lingua, vennero progressivamente espunti dai menù ufficiali di vari paesi (primo tra tutti il Reich di Bismarck) nomi di pietanze e piatti stranieri, divenuti ormai impresentabili in occasione delle visite di Stato o dei grandi ricevimenti pubblici così carichi di significato simbolico.

Intanto alcuni cibi prendevano il nome dalle icone nazionali: in Prussia i Louisentörtchen, in Italia la pizza Margherita, in spagna la Sobrasada che portava il nome del re Martino I di Aragona, in Gran Bretagna i Victoria Sandwiches o il Prince Albert Pudding.

La cucina divenne uno dei pilastri di una comunità che si riconosceva in tradizioni e pratiche comuni. Al centro di questa comunità c’erano le donne. In Francia illustri autori valorizzarono il ruolo della massaia, della madre di famiglia ai fornelli: la nazione si mascolinizzava con l’esercito ma si femminilizzava ed entrava anche negli interni domestici (Porciani 2002).

In Europa, un po’ dovunque, le donne scrissero ricette e pubblicarono libri di cucina: in Boemia Magdalena Dobrumila Rettigovà (link a Wikipedia) dette alla cucina ceca la sua bibbia e a Vienna Katharina Pratoprovera (abbreviata in Prato) (link a Wikipedia) dette alle stampe un volume di più di settecento pagine. Non erano casi isolati. In una Danimarca alle prese con la consistente perdita territoriale dello Schleswig Holstein nel 1864, comunque mal compensata dal controllo delle colonie, i libri di ricette scritti da donne cominciarono a dar voce all’imperativo di costruzione dell’identità nazionale e di promozione del consumo di prodotti nazionali, mentre – a partire da semplici precetti relativi alla vita quotidiana – incoraggiavano le madri a educare i loro figli come buoni cittadini. I ricettari dovevano essere utili alla patria e dunque dovevano evitare con cura i nomi stranieri delle ricette. In Lituania si insistette fortemente sulla identità collettiva proposta da massaie e cuoche-autrici che riaffermavano l’imprinting della nazionalità sulla gastronomia. In Russia accadde lo stesso. K.K. Andreeva si presentava nel suo libro di cucina come una madre di famiglia russa.

I ricettari non sono quasi mai – e soprattutto non lo erano allora – raccolte di semplici consigli pratici per la riuscita di una ricetta: cominciarono allora a costruire narrative che si ispiravano e al tempo stesso costruivano genealogie femminili nelle quali i saperi si tramandavano dalla nonna alla madre alla figlia. In altri casi questo aspetto si collegò alla costruzione di una sorta di rete collettiva nazionale. E’ il caso dell’Artusi, composto e costruito da un autore, ma di fatto messo insieme a partire dalle ricette delle donne con le quali entrò in corrispondenza, le quali correggevano, arricchivano, aggiungevano ricette in un percorso virtuoso. Artusi, costruendo una rete assai ampia, anche se di fatto abbracciò solo una parte delle province italiane, idealmente fu capace di collegarle tutte e di proporle come un insieme coerente e coeso. Fondò così per la prima volta una gastronomia nazionale basata sulla cucina di casa.

A cavallo tra l’Otto e il Novecento, e con più frequenza nei primi anni del Ventesimo secolo, cominciarono a trasparire con preoccupante frequenza accenni ad un presunto atavismo, al quale era da attribuirsi la capacità di riprodurre motivi tradizionali nei lavori d’ago o di merletti (come finì per sostenere anche il ministro e storico Pasquale Villari) oppure la stessa innata abilità in cucina. Ne parlava il gastronomo Alfred Suzanne a proposito delle francesi. Per Marcel Rouff la gastronomia era innata nella razza “La gastronomie est innée dans la race.” Ecco dunque apparire, in modo esplicito, la razza. Pochi anni dopo, nel contesto del totalitarismo nazista, la stessa Leni Riefenstahl avrebbe presentato immagini solo apparentemente innocenti delle giovani reclute del partito, intenti a cucinare insieme, in un ariano cameratismo, insistendo sulla cucina ‘ tedesca’, ‘proprio come quella della mamma’ che i giovinetti in marcia verso il Füher apprezzano quando sono ospiti di una perfetta famiglia nazista. L’ambiente domestico e rassicurante veicola qui con forza l’immagine di un ‘noi’ ben definito e opposto ad un ‘loro’, connotato a questo punto anche in senso evidentemente razziale. Ma anche in Francia qualche segno di un più marcato gastronazionalismo sarà presente negli anni Trenta sulle pagine della rivista femminile ‘Elle’, che avrebbe introdotto piatti non francesi connotandoli esplicitamente come stranieri.

Conclusione

I primi risultati degli studi che si concentrano sul nazionalismo gastronomico suggeriscono di riflettere sulla grande capacità di attrazione che esso dimostra in vari contesti, e invitano a proiettare l’attenzione anche oltre, sugli orizzonti dei populismi a noi contemporanei, in cui non per caso polenta e socca provenzale vengono contrapposti (a volte del tutto a sproposito, ma questo non conta) ai cibi degli altri, di per sé stranieri ed estranei al nostro essere ‘noi’, suggerendo una volta di più l’immagine di una grande famiglia nazionale chiusa, che valorizza la tradizione e marca i confini.

Più in generale gli studi recenti invitano ad allargare lo sguardo per capire il farsi del nazionalismo anche nelle piccole cose, nei consumi e nei gusti, negli interni domestici e nel privato: in una parola, all’interno di quella famiglia che tanto ha contato per dar forma al concetto forte di nazione.

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  1. Ahrens, Cours de droit naturel Theorie du droit public. Leipzig 1875 p. 308, cit in Porciani Ilaria, Famiglia e nazione nel lungo Ottocento, p.12.

  2. Cit. ivi, p. 12.

  3. Cfr. P. Ungari (1974), p. 95.

  4. Ivi, p. 168.