Saura Rabuiti intervista la storica Simona Feci
Simona Feci è stata Presidente della Società Italiana della Storiche, insegna Storia del diritto medievale e moderno presso l’Università di Palermo. Ha dedicato parte delle sue ricerche alla storia delle donne e alla storia di genere. Nel 2017 ha curato, con Laura Schettini, per Viella editore, La violenza contro le donne nella storia. Contesti, linguaggi, politiche del diritto (secoli XV-XXI).
Saura Rabuiti la intervista nel n. 9/2018 de “Il Bollettino di Clio”.
S.R.
Gli studi storici sulle donne possono oggi contare su una notevole e variegata mole di lavori. Per lungo tempo però, e salvo rare eccezioni, le donne in quanto tali sono state escluse dall’analisi storiografica e le diseguaglianze di condizioni fra uomini e donne considerate quasi un dato naturale. In quali contesti culturali e politici sono cambiate le cose?
S.F.
Mi piace ricordare, innanzitutto, che, almeno dall’età moderna, si dipana un sottile filo rosso a indicare come la marginalità delle donne dalla storia e la loro invisibilità nella storiografia siano frutto di intenzionali di scelte compiute dalla politica e dalla cultura. Ancor prima delle acute e dissacranti osservazioni di Jane Austen (ad esempio in Northanger Abbey) o delle appassionate lezioni di Virginia Woolf in Una stanza tutta per sé, la querelle des sexes cinque-seicentesca aveva indicato e denunciato, anche per la penna di alcuni uomini, proprio questo artificio. Si tratta di voci minoritarie naturalmente, sebbene la pratica storiografica delle donne inizi prima di quanto solitamente si pensi, come dimostrano i saggi raccolti nel volume Storiche di ieri e di oggi (a cura di Maura Palazzi e Ilaria Porciani).
Sono comunque gli anni Settanta del Novecento a imprimere una svolta: la denuncia femminista del patriarcato si accompagna alla necessità di indagare la natura e la perduranza di questo sistema di potere e di dominio, mentre si valorizza la presenza delle donne nella storia attraverso un percorso che restituisce loro “visibilità” (termine chiave in numerose pubblicazioni di quegli anni) e le costituisce soggetto dell’analisi. Non è un percorso di ricerca esclusivo delle donne, questo, però. Gli storici degli anni Settanta, infatti, prestano attenzione a tutti quei gruppi che le grandi “narrazioni”, cioè i canoni storiografici dominanti, hanno fino ad allora ignorato o trascurato, perché marginali e/o subalterni: i contadini e gli operai, gli eretici e altre figure di insubordinati, non allineati alla cultura e ai valori prevalenti. Questa congiuntura straordinariamente vitale prende declinazioni diverse secondo i contesti nazionali. In Italia, per esempio, la “microstoria” offre una sponda importante alla critica femminista alla storia, anche se l’apertura a temi rilevanti nella prospettiva di una storia al femminile – avvenuta nel corso degli anni Ottanta – non è ovvia né spontanea. Nel 1981 nasce la rivista Memoria (sulla cui genesi hanno scritto pagine belle tanto Paola Di Cori, quanto Angela Groppi) che esplora con straordinaria intelligenza pressoché tutti i temi che poi verranno messi a regime dalla ricerca successiva e lo fa già in una dimensione relazionale, cioè «di genere». E poco più tardi, nel 1989, gruppi di studiose che nella pratica storiografica hanno in diverso modo convogliato la pratica politica del femminismo danno vita alla Società italiana delle Storiche, la prima delle associazioni storiche e tra le più risalenti tra le associazioni professionali di donne.
S.R.
Per gli sviluppi di un settore di studi che muove dalla critica all’universalità di una storia maschile, è stata di fondamentale importanza l’elaborazione, da parte delle storiche nordamericane, di una nuova categoria interpretativa, quella di gender (“genere” nella sua faticosa traduzione italiana). Può aiutarci a definire, per quanto possibile, tale categoria, tutt’altro che stabile e univoca? Può inoltre illustrarci in che modo il genere è diventato “un’utile categoria di analisi storica”?
S.F.
Può essere utile partire da una celebre affermazione di Simone de Beauvoir: “Donne non si nasce, si diventa”. Anche se la filosofa francese non aveva in mente il concetto di “genere”, vi è in questa frase l’intuizione che le identità femminile e maschile sono costruzioni, frutto di processi di socializzazione e acculturazione che partono dal modo in cui viene percepito e categorizzato il corpo. La storia ce lo insegna in modo prepotente e ci costringe quindi a “relativizzare” il nostro presente e le sue “verità”, riportando l’uno e le altre entro processi di continua trasformazione a cui concorrono i sistemi religiosi, politici, filosofici, culturali e giuridici. Che cosa abbia significato nel corso del tempo essere bambine e bambini, uomini e donne è qualcosa di molto diverso da oggi ed è continuamente cambiato, investendo ruoli e rappresentazioni, codici linguistici e comportamentali, aspettative e possibilità, diritti e opportunità. D’altronde anche l’assegnazione sessuale a un genere è un’operazione culturale. Lo dimostra la lunga storia che precede la dicotomia maschile/femminile, quando il corpo femminile era osservato e interpretato dalla scienza come un corpo maschile inverso e manchevole. Le accezioni di «genere» sviluppate dalle diverse discipline sono molteplici, come è noto. Qui vorrei solo richiamare l’ambito storiografico, dove – come è noto – il riferimento di partenza è il saggio di Joan Scott, Il genere: un’utile categoria di analisi storica del 1986 (cfr. J. Scott, Genere, politica, storia, a cura di Ida Fazio, Roma, 2013). E insistere soprattutto sull’utilità che l’autrice richiamava, più che sulla definizione, che non a caso poi sarebbe stata oggetto di approfondimenti e precisazioni. Scott, infatti, valorizzava e discuteva già la ricchezza degli usi del termine nelle scienze sociali e nella storiografia, ma richiamava anche alla necessità di riflettere criticamente sui concetti e di «trovare il modo (anche se imperfetto) di sottoporre continuamente le nostre categorie alla critica e le nostre analisi all’autocritica». E in tal modo non solo si superava la presunta uniformità (di tratti, di condizione, di obbiettivi…) delle donne (e degli uomini, in quanto a loro) per valorizzare invece, contro il determinismo biologico insito nella nozione di “sesso”, la varietà e la ricchezza e l’irriducibilità ad unum per certi versi delle esperienze storiche del femminile (e del maschile) e delle stesse relazioni interne ai generi. Ma, come appunto segnalava Scott, il collegamento tra l’individuo e l’organizzazione sociale e la loro interrelazione mostra come il genere funziona e come produca il mutamento. D’altronde, proprio la costruzione delle categorie di femminile e di maschile va oltre i corpi sessuati, gli individui reali e le loro concrete esistenze per riguardare la dimensione simbolica. Non è forse un caso che, negli stessi anni in cui Scott scriveva, si metteva a punto la categoria di «intersezionalità» che, appunto, metteva in rilievo la pluralità dei sistemi delle disuguaglianze di cui i soggetti partecipano e che avrebbe avuto molto rilievo nell’arricchire e problematizzare la nozione di «genere».
S.R.
Donne e genere non sono certamente categorie sovrapponibili. Tuttavia, poiché è diffusa una certa confusione fra donne e genere e dunque fra storia delle donne e storia di genere, ci può illustrare le differenze che intercorrono fra questi differenti ambiti di ricerca, che pur si incrociano fra loro?
S.F.
Anche se spesso nelle esperienze di didattica universitaria e scolastica, così come nelle pratiche di ricerca, molte studiose abbracciano la storia delle donne e la storia di genere, adottando l’una o l’altra denominazione in modo elastico e talora intercambiabile, i due soggetti non sono univoci, né sovrapponibili. La storia delle donne, infatti, assume la componente femminile di uno specifico contesto storico come oggetto dell’analisi e mira all’obiettivo di includere le donne nella narrazione storica presunta «universale». Questa operazione intellettuale non si limita ad acquisire informazioni che arricchiscano il quadro generale e ne riequilibrino le distorsioni che una storiografia falsamente neutra (nell’oggetto osservato così come nell’osservatore) ha operato. Ma ha l’ambizione di ritenere che da ciò derivi un profondo riesame critico del canone storiografico e dei paradigmi interpretativi dominanti. Dunque non si tratta mai, almeno potenzialmente, di una storia meramente «aggiuntiva». Un esempio di questa prospettiva – che vanta una lunga tradizione a partire dalla rilettura della «Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino» del 1789 a opera di Olympe de Gouges – mi sembra che possa essere l’inefficacia delle scansioni cronologiche classiche. Per quanto le donne partecipino della storia e siano investite dalla “grande storia” nella stessa misura degli uomini, guardando a loro, la periodizzazione assume anche altre campate, forse più rilevanti, e le riflette anche sul versante maschile. Ad esempio, la cadenza differenziata nell’acquisizione di autonomia e cittadinanza spostano i tempi della “modernizzazione”, della “contemporaneità” (che qui vorrei intendere anche come allineamento e simultaneità nei diritti e nelle opportunità di donne e uomini). Si potrebbe pensare a un’evoluzione storiografica che proceda dalla storia delle donne alla storia di genere, l’una storia “particolare”, l’altra invece di più largo respiro. Vale la pena osservare però che il lavoro di estrazione dall’oblio, per restituire alle donne memoria e parola e per farne oggetto di storia, non sembra potersi considerare ultimato. Semmai, allora, dobbiamo chiederci quali donne rendiamo visibili, come e perché. La «storia di genere» assume, invece, una prospettiva di studio e un questionario di analisi differenti, perché s’interroga sui modi in cui storicamente si sono costruiti i «generi», cioè i ruoli maschili e femminili, nella relazione reciproca e interdipendente. Paradossalmente, quando Scott scriveva, la storia «delle donne» appariva dotata di una carica di critica politica e di minacciosità al sistema che si è ora del tutto attenuata nella percezione comune, mentre sembra più delicato usare il termine «genere» a causa della perniciosa convinzione dell’esistenza di una fantomatica «teoria del gender». I problemi correlati alla storia di genere sono molteplici e, nel corso dei decenni, sono stati sollevati e per certi versi anche superati. Penso, ad esempio, alla dimensione discorsiva nella costruzione dei generi insieme con ma anche rispetto alle esperienze concrete dei ruoli esperiti dagli individui oppure alla relazione tra corpo sessuato e genere.
S.R.
Il “gender” ha avviato nelle scienze sociali un fecondo dibattito, tutt’ora in corso, sulle identità sessuali e ha fatto della storia di genere un ambito di ricerca “indisciplinato”, nel senso che intreccia temi e questioni in un’ottica prevalentemente interdisciplinare. In quali terreni lo scambio e l’affinità di obiettivi e di metodologie utilizzate dalle differenti discipline sociali è stato ed è più frequente e a suo parere più fecondo?
S.F.
A questa domanda non posso che dare una risposta parziale. Penso infatti che i percorsi di studiose e studiosi possono essere anche fortemente differenziati, anche in ragione del fatto che in Italia la storia delle donne e la storia di genere non sono divenute discipline istituzionalizzate, che presuppongono quindi percorsi di formazione, di produzione del sapere e di riproduzione accademica definiti e standardizzati. Io, ad esempio, sono una modernista e mi sono sempre occupata di storia sociale. I miei studi sulla comunità ebraica romana, su eretici e inquisitori, sulle donne – soggetti caratterizzati da posizioni di marginalità siglate da posizioni specifiche nel quadro giuridico – mi hanno avvicinato alla storia del diritto (disciplina che attualmente insegno). In definitiva, la mia interdisciplinarietà ha coinciso con l’attenzione verso le scienze sociali e il diritto. Però altre colleghe hanno sviluppato i loro studi di storia delle donne e di genere nel confronto metodologico e tematico con la storia dell’economia e del lavoro o con la storia politica e internazionale o con quella della sessualità o ancora con la storia della scienza. Questi percorsi sono dunque molto indisciplinati e costituiscono una grande ricchezza per lo scambio intellettuale e la circolazione dei saperi. Va forse aggiunto che si potrebbe invertire la questione e sostenere piuttosto l’importanza dello sguardo e del sapere storico per inquadrare questioni di genere che avvertiamo attuali e anche urgenti. Proprio una disciplina che, di per sé, contestualizza come la storia permette infatti di decostruire gli assiomi e gli stereotipi, mostra come si definiscono nel tempo situazioni che ci appaiono talmente radicate da apparire quasi «naturali», le relativizza e ne rimarca il carattere transeunte (dunque anche modificabile). La sociologia della famiglia ha intessuto un fertile rapporto con la storiografia, d’altronde, come dimostrano gli studi di Marzio Barbagli, Chiara Saraceno e Simonetta Piccone Stella, ad esempio.
S.R.
La storiografia di genere ha posto in particolare evidenza il rilievo del soggetto produttore del sapere storico, interrogandosi su cosa significhi fare storia, sui valori, i referenti teorici, le categorie adoperate da chi scrive di storia. Perché e con quali implicazioni?
S.F.
Sono due i piani che la questione chiama in causa. Da un lato, una tradizione di denuncia della natura «maschile» della narrazione storica a causa del dominio culturale detenuto dagli uomini. L’attenzione per un osservatore che non è astratto, né tantomeno neutro (nel duplice senso di asessuato e imparziale) è dunque correlata alla critica femminista alla storia. D’altro lato, questa consapevolezza investe tutta la storiografia del secondo Novecento, anche se le storiche hanno forse aggiunto alla individualità e alla soggettività dello sguardo di chi osserva, la lezione femminista che valorizza il «vissuto», cioè la dimensione esperienziale, e anche il «partire da sé» come procedura eversiva di elaborazione dei temi e delle domande. In questo quadro, la Società Italiana delle Storiche può essere indicativa di una possibile collocazione: l’accento è posto sull’essere – le aderenti – donne che «fanno storia», piuttosto che studiose di storia delle donne o di genere e questo orientamento prevalente è alla base di una scelta separatista che conserva ancora una sua ragion d’essere
S.R.
L’approccio critico di genere, inizialmente messo alla prova in studi e ricerche di storia delle donne, si è allargato non solo a più tradizionali e universali campi di storia al maschile (la storia della medicina, la storia militare, la storia del diritto, la storia della criminalità, la storia della chiesa), ma è stato anche un presupposto indispensabile per la nascita degli studi sulla mascolinità. Quale è la realtà dei men’s studies nella storiografia e nelle Università italiane?
S.F.
I men’s studies in Italia sono alquanto arretrati, soprattutto per la dimensione marginale che occupano nel campo della ricerca e il relativo peso che ne deriva, almeno per quanto riguarda il settore storico, l’unico di cui posso parlare. Le difficoltà da superare, d’altronde, sono decisamente molte, perché alla scarsa considerazione dell’accademia per queste tematiche (tanto al maschile quanto al femminile), si coniuga la mancanza di quelle condizioni e motivazioni (di ordine politico-militante e scientifico) che in Italia sono state all’origine della nascita della storia delle donne. Come ha messo più volte in rilievo Sandro Bellassai, la invisibilità del genere è la condizione per l’accreditamento del maschile come universale contro il rischio, altrimenti, di una crisi del virilismo. D’altronde, i men’s studies possono essere solo in un’ottica di genere, anche per aggirare l’opacità cui il protagonismo degli uomini nella storia ha condannato l’esperienza storica del maschile. Comprendere e delineare come ambiti di esclusiva pertinenza maschile siano stati luoghi di costruzione e sperimentazione di genere, cioè dove si annidi la «genderizzazione» al di là del dominio e della separatezza, è molto problematico da leggere nella dimensione concreta. Mi sembra però una sfida interessante, soprattutto perché – come già rilevava trent’anni fa Scott – la prospettiva di genere rinvia al modo in cui guardiamo al presente, alle connessioni tra storia del passato e pratica storiografica, ma anche direi al modo in cui leggiamo le società attuali, gli equilibri e le disparità, la distribuzione delle opportunità.
S.R.
La prospettiva storica di genere si è dimostrata particolarmente preziosa nell’analisi del fenomeno della violenza. La violenza contro le donne nella storia, il recente volume collettaneo da lei curato (insieme a Laura Schettini) “mettendo al lavoro … competenze derivate dal fiorire della gender history” (p. 10), esamina sia specifici contesti storico-sociali in cui la violenza si è manifestata nei secoli XV-XXI, sia le politiche del diritto e religiose adottate per regolarla. Quali i principali risultati della ricerca, sia in termini di migliore comprensione di un fenomeno storico, che di contributo al dibattito pubblico sulla violenza maschile contro le donne?
S.F.
Il nostro volume, che si dispone lungo una linea di periodiche iniziative della Società Italiana delle Storiche su questo tema, muove da un’ambizione: quella che anche storiche e storici possano contribuire alla riflessione pubblica sulla «violenza» con competenze scientifiche che ci sono proprie intervenendo tanto sul piano dell’analisi quanto su quello della ideazione di pratiche di prevenzione. L’inquadramento delle differenze tra uomini e donne in una dimensione storica e niente affatto naturale (come ricordano anche i documenti prodotti dagli organismi internazionali) e le difficoltà di decifrazione del fenomeno, sui cui tratti di continuità nella tradizione o invece di modernità ed emergenza ci s’interroga spesso, ci hanno indotto a intervenire prendendo in considerazione proprio una prospettiva di lungo periodo. Quella che consente di disincagliare lo sguardo dalla cronaca per elaborare una visione più articolata e complessa della «violenza». Alla luce di ciò, i risultati più interessanti sono stati la messa in evidenza di come contesti diversi percepiscano e definiscano la soglia tra comportamenti leciti nella sfera coniugale e domestica e comportamenti abusivi e per questo ascrivibili alla «violenza» e sanzionabili. É la soglia, dunque, più che una definizione univoca di «violenza», l’oggetto dell’analisi: è questa che le donne e gli uomini, i membri delle comunità o delle società, i diversi attori sociali e istituzionali di volta in volta discutono, negoziano, regolano, patteggiano o rifiutano, e in definitiva trasformano. Un secondo risultato utile è l’attenzione per una cronologia del mutamento che precipita su una contemporaneità assai prossima: intendo dire che, per quanto riguarda l’Italia, solo dalla metà del Novecento abbiamo l’affermazione di principi di uguaglianza, espressi dalla Costituzione, e solo a partire dagli anni Settanta la trasformazione di quei principi in norme di diritto civile e penale che rompono definitivamente con il sistema patriarcale e che riconoscono autonomia alle donne, mettono fuori legge il dominio e la sopraffazione nelle relazioni domestiche e definiscono finalmente la violenza sessuale un reato contro la persona e non più contro l’ordine sociale. Un ulteriore aspetto messo in luce dalle ricerche è l’importanza dei linguaggi che pervadono le narrazioni dei diversi protagonisti, tra di loro e nella interlocuzione con quei soggetti investiti direttamente o meno della contesa e/o dai percorsi di fuoriuscita dalla «storia di violenza» delle donne. A mano a mano che ci avviciniamo all’età contemporanea e ai nostri giorni.
S.R.
La violenza di genere è una drammatica e quotidiana realtà nel nostro paese (e purtroppo nel mondo intero). Quali suggerimenti si possono dare ai docenti che a scuola intendono progettare e organizzare percorsi didattici su questo tema/problema “caldo” ponendo in relazione le vicende del presente con quelle del passato?
S.F.
Non nascondo che, per me, è molto difficile dare suggerimenti a colleghi che quotidianamente si misurano con una didattica dedicata a studenti e studentesse della scuola primaria e secondaria di primo e secondo grado, molto diversa da quella universitaria che pratico. Mi sembra però che, alla distanza ravvicinata della ricerca che abbiamo condotto (e stiamo ancora conducendo, tanto io quanto Laura Schettini, oltre a coloro che hanno scritto nel volume), il tema della violenza contro le donne si dimostri estremamente fertile dal punto di vista metodologico e didattico. Gli aspetti da richiamare sono almeno tre. Il primo riguarda la ricchezza di questioni che la «violenza» investe e che riguardano i rapporti tra uomini e donne e il modo in cui si sono definite le identità e i ruoli di genere, le relazioni coniugali, domestiche e intrafamiliari, i conflitti interpersonali e in seno alla famiglia, il principio di autorità e la sua declinazione nella sfera domestica e in quella pubblica, la relazione tra forza e violenza, cioè tra uso lecito degli strumenti di governo e abuso sia in seno alla famiglia sia nella società, le forme e gli ambiti di esercizio del potere e i processi di acquisizione della libertà individuale e di definizione del soggetto autonomo, il corpo e la sessualità e l’autodeterminazione degli individui in merito alla propria sfera corporea e sessuale, i dispositivi culturali, religiosi, giuridici e mediatici che veicolano e corroborano disuguaglianze e sopraffazioni nel discorso pubblico etc. Le possibilità per i docenti delle discipline caratterizzanti le materie umanistiche (storia e filosofia, lingue classiche e letteratura, storia dell’arte e psicologia, diritto…) di costruire percorsi di indagine e di sensibilizzazione a partire dai programmi scolastici e dai progetti di istituto mi sembrano moltissime, quindi. Un secondo aspetto interessante riguarda l’esercizio di ri-definizione di ciò che «violenza» significa, considerando proprio la lunga persistenza di un’idea, oltre che di una pratica, di violenza, di volta in volta presente nei diversi contesti storici patriarcali, che si accompagna però anche a cambiamenti radicali e incontrovertibili. Penso, a tale proposito, alla presa di parola delle donne su questo tema fin dal tardo Settecento, al di là delle denunce individuali sempre avanzate, e ai movimenti collettivi che hanno imposto la questione nel discorso pubblico, politico e giuridico, dagli anni Settanta. Un terzo aspetto che, nell’assumere una prospettiva diacronica sulla violenza, mi pare di valore riguarda la dialettica tra empatia e alterità, cui una questione così attuale ci costringe a lavorare. I discorsi delle donne che denunciano le violenze subite si presentano abbastanza omogenei nel tempo e quindi capaci di attirarci perché apparentemente molto orecchiabili, ma questa familiarità che avvertiamo in realtà nasconde un contesto di produzione del discorso stesso molto diverso, che va decodificato e compreso. A mio avviso, dunque la ricchezza di temi, che attraverso l’indagine sulla violenza nel tempo, possono essere esplorati, la estrema ricchezza delle fonti (dalle carte di tribunale alle scritture private, dall’iconografia alle rappresentazioni artistiche, dalla letteratura alla musica…) e le posture di analisi a cui siamo indotti permettono di elaborare percorsi didattici di sensibilizzazione e di educazione tarati su destinatari specifici e il più possibile prossimi alle loro esperienze e alle loro domande, anche se non confondibili. Da ultimo, direi che proprio la moltitudine di voci femminili e la loro volontà di uscire dalla personale «storia di violenza» in cui si ritrovano sono una dimostrazione incoraggiante del fatto che abbiamo alle spalle molte generazioni di donne che hanno voluto reagire e sono riuscite nel loro particolare contesto a dare un corso diverso al proprio percorso di vita.
S.R.
La Società Italiana delle Storiche ha, fra gli altri meriti, quello di essere attivamente impegnata nel rinnovamento della tradizionale storia scolastica. La storia di genere ha infatti profonde e complesse implicazioni per la storia insegnata. Qual è la situazione della didattica della storia di genere/delle donne/della sessualità in Europa e, in particolare, in Italia?
S.F.
La domanda è solo apparentemente facile. Infatti, potrei dire che ci sono ormai molte energie spese per la valorizzazione di un approccio didattico e formativo che attraverso la storia delle donne e di genere incrementi la conoscenza storica, promuova una cittadinanza più consapevole e valorizzi anche le identità di genere delle nuove generazioni. Mi sembra che iniziative come la vostra, ma anche un recente convegno dell’ISREC di Piacenza sulla storia di genere, le attività di un’altra importante rete di insegnanti come Toponomastica femminile, i tavoli di “Educare alle differenze”, organizzati da “Scosse” e giunti ormai alla quarta edizione – per menzionare solo occasioni in cui anche la SIS ha partecipato e regolarmente partecipa, oltre a quanto poi facciamo noi stesse come associazione – diano il senso di una crescente attenzione verso queste tematiche. Inoltre, vi è un gran numero di iniziative di singoli insegnanti o di istituti, corsi di formazione locali, progetti tra scuole e istituzioni locali che ci consentono di essere ottimisti. Penso comunque che una collaborazione più stretta tra il mondo della ricerca e quello della scuola vada coltivata sia per diffondere i risultati più avanzati che le studiose elaborano, spesso anche in una dimensione transnazionale, sia per costruire insieme strumenti didattici, questi sì ancora inadeguati.