Un esempio di trasposizione didattica per la storia del Novecento: gli Ebrei fino al XX secolo di Maila Pentucci

Introduzione

Nel percorso storico insegnato a scuola e nella sua trasposizione da manuale, il popolo ebraico viene menzionato a più riprese, ma sempre in maniera occasionale e senza una reale prospettiva storica.

In realtà gli Ebrei attraversano la storia generale mondiale con continuità: proprio la dimensione a-territoriale di questo popolo, evidenziata dalla diaspora, ma già presente fin dal periodo antico (quello grosso modo corrispondente alle vicende bibliche), fa sì che essi nel corso dei secoli attraversino la storia di altri popoli incrociando momenti-chiave della storia mondiale.

Una ricostruzione storica solida e coerente potrebbe contribuire a leggere alcune caratteristiche che connotano il popolo ebraico: gli intrecci tra identità etnica, religiosa, geografica, culturale, per esempio, ne fanno un interessante modello per analizzare il concetto di popolo e quello di nazione. Inoltre, si tratta di un popolo in movimento: le vicende degli Ebrei dall’epoca antica a quella contemporanea si prestano a leggere la storia degli uomini come una storia di mobilità e di cammino.

Proporre un repertorio sulla storia generale degli Ebrei dalle origini al ventesimo secolo ha una doppia motivazione: da un lato viene incontro a una esigenza didattica riconosciuta, legata al processo di trasposizione. Il docente, infatti, nel momento in cui si trova a selezionare, didattizzare e linearizzare i contenuti storici nella sua progettazione, deve avvicinarsi al sapere sapiente, dominarlo e interpretarlo e, quindi, trasformarlo in sapere da insegnare per i suoi studenti senza incorrere in eccessive banalizzazioni e semplificazioni. Repertori ragionati già pronti possono facilitare tale operazione complessa e non banale, consentendo nello stesso tempo di accedere ad un sapere sapiente già sistematizzato, più agevole da maneggiare e da trasporre ed evitando così di affidarsi esclusivamente ai manuali scolastici e, quindi, alle scelte didattiche e traspositive operate da altri (Pentucci, 2018) non a conoscenza del contesto della classe.

D’altro canto, la scelta del tema è legata anche ad una motivazione civile: in tempi bui, come quelli odierni, in cui rigurgiti di antisemitismo si ripresentano non solo in nicchie deviate della società, ma anche nell’opinione pubblica generale, in alcuni ambienti politici, nella comunicazione, ci sembra opportuno proporre un approfondimento documentato della storia del popolo ebraico, nella convinzione che la conoscenza sia sempre un antidoto al pregiudizio e alla discriminazione nei confronti dell’altro.

La storia degli Ebrei è ovviamente molto lunga e particolarmente complessa, proprio perché connessa con le vicende di molti altri popoli e situata in terre differenti. Lo storico tedesco Michael Brenner così la approccia nel suo fondamentale testo «Breve storia degli ebrei» (2009), edito in Italia per Donzelli:

Raccontare la storia degli ebrei non è semplice, perché quasi ovunque nel mondo non solo si sa qualcosa degli ebrei, ma spesso se ne ha un’opinione ben definita. Per un gruppo che non ha mai rappresentato più dell’1% della popolazione mondiale ciò può essere considerato un onore. Ma per lo storico è difficile mantenere il giusto distacco se si parla degli ebrei come del popolo di Dio o come del popolo deicida, quando si evoca l’intelletto ebraico o si attacca l’ebraismo finanziario internazionale, quando Israele è considerato il baluardo della civiltà all’interno della barbarie o condannato invece quale regime brutale in mezzo a un mondo di pace e serenità.

Per tale motivo, più che di una ricostruzione esaustiva delle vicende e delle peculiarità del popolo ebraico, demandate alla bibliografia, sembra opportuno trattare il tema secondo due prospettive, fortemente interrelate: da un lato capire come, nella prassi didattica, questo nucleo storico venga normalmente trattato e inserito nei percorsi di insegnamento-apprendimento per cercare di offrire alcuni spunti che possano avviare verso una trasposizione didattica più efficace, attraverso letture transcalari delle questioni più importanti; dall’altro si tenterà non di raccontare, ma di compiere attraversamenti multipli della storia degli ebrei e proporre alcune chiavi di lettura derivanti da linee storiografiche che di volta in volta hanno preso in carico alcuni degli aspetti connotanti l’identità di questa civiltà, aspetti rintracciabili longitudinalmente nel corso delle vicende storiche che l’hanno interessata.

Le vicende del popolo ebraico a scuola

 L’esplorazione epistemologica si connette alla prospettiva didattica: le logiche che guidano l’analisi e la ripresa di alcuni temi approfonditi dalla letteratura storica internazionale possono diventare anche fondanti nel momento in cui il docente si trovi a compiere scelte per inserire le vicende del popolo ebraico nel curricolo generale di storia.

L’aspetto più evidente della storia generale degli ebrei è che essa si configura come una storia di relazioni: il popolo ebraico, nella dimensione a-territoriale che ne ha caratterizzato quasi tutto lo svolgimento, nel corso dei secoli si trova più volte ad attraversare e a intrecciarsi con la storia di altri popoli. Ciò consente aperture su momenti chiave relativi alla storia mondiale, in particolare per comprendere le logiche transnazionali proprie della storia globale.

Gli ebrei, dunque, sono un popolo in movimento: per questo le loro vicende, dall’epoca antica a quella contemporanea, si prestano a leggere tutta la storia degli uomini come una storia caratterizzata dalla mobilità, sia essa una scelta, un bisogno, una coercizione, costruendo legami con il presente e proponendo la prospettiva dell’homo migrans (Damiano, 2005).

Tali approcci richiedono evidentemente una lettura didattica in chiave di global history (Conrad, 2016): mobilità, transnazionalità, superamento dei confini territoriali, identità non connesse esclusivamente alla terra d’origine hanno come spazio di riferimento il mondo e come processo cognitivo predominante la transcalarità, ovvero la capacità di analizzare i fatti con prospettive multiple, che connettono dimensioni locali e dimensioni globali, le confrontano e le alternano.

Se questo è il «dover essere», quale è invece lo stato delle cose nella pratica didattica? Come vengono trattate le vicende del popolo ebraico all’interno della storia generale insegnata?

L’analisi dei manuali scolastici, sul piano meramente contenutistico, può darci indicazioni in tal senso: la storia degli ebrei viene narrata in maniera episodica e sporadica, in alcuni momenti della trattazione generale emergono fatti o situazioni che li riguardano, ma che difficilmente vengono contestualizzati in una dimensione ampia, mondiale, né fanno parte di quei sistemi di relazioni e intrecci di cui sopra si è detto.

Tali modalità traspositive, a cui spesso i docenti si affidano totalmente per la loro progettazione storica, ingenerano stereotipi e banalizzazioni e sono portatrici di fraintendimenti, di narrazioni parziali, frammentarie o prospetticamente errate, oltre a tacere molti aspetti che potrebbero sostenere una ricostruzione più completa ed epistemologicamente fondata.

Il primo cenno che in genere si trova riguarda il ‘quadro di civiltà’ sugli ebrei: senza entrare nel merito riguardo all’interpretazione che la maggior parte dei sussidiari dà a tale strumento di organizzazione del sapere storico e ai modi in cui esso viene proposto, non sempre aderenti alla metodologia originale elaborata da Ivo Mattozzi (2009), il quadro sugli ebrei viene inserito tra i cosiddetti popoli del mare, in un raggruppamento che contiene in genere fenici, cretesi e, appunto, ebrei.

Il nesso tra il mare e gli ebrei è quantomeno sfuggente: se per le altre civiltà citate è possibile indicare il mare come connotante sul piano ambientale, economico, della vita materiale, gli ebrei con il mare non hanno avuto rapporti significativi, se non si risale alla questione delle origini, in base alla quale i Filistei, una delle tribù che ha dato origine al composito popolo ebraico, stanziata nella terra di Canaan tra il 1200 e l’800 a.C., sono identificati come Peleset o Pelasgi – popoli del mare, appunto – provenienti presumibilmente dai dintorni di Micene o da isole vicine a Creta (Garbini, 1997). Ovviamente tale questione relativa alle origini è completamente assente dalla narrazione della manualistica.

Altra definizione che viene assegnata agli ebrei è quella più ovvia di popolo della Bibbia. In questo caso si fa cenno al libro sacro di ebrei e cristiani come alla fonte in base alla quale è possibile ricostruire la storia antica del popolo. Meno evidente (se non assente) è invece la distinzione tra origini storiche e origini mitiche, quelle appunto contenute nel racconto biblico, che viene in genere presentato alla stregua di un racconto storico, trascurando la ricchezza di simboli, metafore e interpretazione che tale testo invece contiene.

Passando ai manuali di scuola secondaria di I grado, vi sono talvolta alcune righe sul coinvolgimento degli ebrei nei capitoli dedicati alle Crociate, ma senza un’adeguata contestualizzazione. Quasi assente è, invece, la posizione e la persecuzione degli ebrei nell’ambito della Reconquista cattolica ad opera dei re di Spagna.

Di fatto gli ebrei sono assenti dal panorama della storia generale e ritornano fuori nel 1933, quando si parla dell’ascesa del nazismo in Germania, nel consueto, esclusivo ruolo di vittime della Shoah.

È una trattazione decisamente parziale, che non permette di comprendere a fondo la dimensione dell’antisemitismo e del razzismo biologico proprio del nazismo perché mancano le connessioni con lo sviluppo storico generale.  Nello stesso tempo, la chiave di lettura è quella vittimaria e restano esclusi dall’approfondimento storico una visione più generale della storia degli ebrei a partire dal processo di emancipazione, la situazione internazionale della persecuzione antiebraica e i suoi legami con la storia moderna non solo d’Europa, i contributi che gli ebrei diedero alla Resistenza e all’opposizione ai totalitarismi (Pentucci, 2017).

Infine, la situazione attuale, che comprende la complessa questione israelo-palestinese, è praticamente assente, confinata in alcuni casi in schede conclusive del volume di classe terza.

Come nasce il popolo ebraico?

 Lo stato delle cose fino a qui sinteticamente illustrato rispetto alla trasposizione della storia degli ebrei nel processo di insegnamento-apprendimento della storia generale a scuola prospetta la necessità di rivedere e ripensare la curricolazione di tale nucleo storico. Per questo è opportuno fornire agli insegnanti prospettive di approccio all’epistemologia e piste storiografiche che possano sostenerli nella progettazione dei propri percorsi didattici.

La prima questione da affrontare è relativa alle origini del popolo ebraico e al loro territorio di riferimento, quello che oggi è lo stato di Israele. Si tratta di affondare lo sguardo nella storia profonda (Smail, 2017) per capire come, nel corso del Neolitico, nei territori compresi tra il nord della Mesopotamia e la costa orientale del Mediterraneo, attraversate da rotte commerciali provenienti dalla vicina mezzaluna fertile, si siano avvicendate popolazioni e gruppi etnici differenti, fino al XV sec. a.C., epoca in cui gli archeologi fanno risalire la strutturazione di una civiltà propria della terra di Canaan, presumibilmente corrispondente all’unione delle dodici tribù bibliche.

Le origini di Israele sono oggetto di una vivace controversia tra archeologi, storici, studiosi delle religioni e… politici. Come per ogni popolo antico esse sono, in ogni caso, difficili da individuare. Quel che sappiamo, lo dobbiamo a una fonte letteraria unica, la Bibbia, più in particolare al Libro della Genesi, composto molto probabilmente tra l’VIII e il VI secolo prima della nostra era, all’epoca degli ultimi re di Giudea. Vale a dire molto tempo dopo gli eventi riportati, quando i “figli di Israele”, al termine di peripezie assai confuse, finiscono per stabilirsi in Palestina e si dotano di istituzioni politiche centralizzate così come di… un mito sulle origini, una “biografia” comune (Abtibol, 2015, p. 5).

La storiografia, infatti, nutre parecchie incertezze rispetto alle origini del popolo ebraico, in particolare per quanto riguarda la storia dal secondo millennio al XIII secolo avanti Cristo. Ciò su cui gli storici concordano è l’inaffidabilità, sul piano storico, dei libri della Genesi e dell’Esodo, considerati fino agli inizi del Novecento una narrazione che pure nelle ambiguità dovute alla natura religiosa dei testi avesse riferimenti diretti alle origini storiche. In realtà l’arrivo di Abramo da Ur in Cananea, l’età dei patriarchi, le dodici tribù dei primordi, ma anche i cinque secoli in Egitto, i quaranta anni nel deserto e il passaggio del Mar Rosso, la conquista militare della terra di Canaan da parte di Giosuè, fino ai potenti regni di David e di Salomone sottendono significati simbolici, di portata fortemente identitaria, ma assolutamente slegati da reali eventi storici ai quali abbiano potuto essere ispirati.

Ciò su cui gli storici concordano, sulla base principalmente di ritrovamenti archeologici in siti non tanto autoctoni, ma principalmente egiziani e babilonesi, è la convergenza, nel XIII secolo a.C., di un insieme di gruppi e tribù nomadi e seminomadi, mossi da motivazioni differenti, verso la terra di Canaan, dove per le favorevoli condizioni ambientali si insediano. Di tali gruppi fanno parte i cosiddetti Leviti, la tribù di Mosè secondo la Bibbia, in realtà profughi dall’Egitto durante il regno di Ramsete II. Dall’Egitto, che nei secoli XVI-XV a.C., al tempo di Amenofi I, aveva esteso il suo dominio fino alle coste del mar Mediterraneo orientale per cercare di stabilire ponti commerciali con i Fenici attraverso il mar Egeo, giunsero vari fuoriusciti: ex schiavi liberati, schiavi in fuga, elementi delle popolazioni conquistate insofferenti al dominio dei faraoni. Dalla Mesopotamia invece, dopo la conquista assira, arrivarono fuggitivi di varie etnie. Più tardi, tra il XII e il IX secolo a.C., arrivarono i Filistei, popolazione di origine indoeuropea proveniente dai dintorni di Creta, che aveva provato a stabilirsi in Egitto dalle coste orientali ma ne era stata respinta da Ramsete III. Tutti questi gruppi si insediarono su uno spazio presumibilmente già occupato da tribù autoctone forse seminomadi, di sicuro non organizzate in sistemi statuali legati ai concetti di territorio o di confine.

All’infuori dei tradizionalisti, nessuno oggi pensa che la presenza degli israeliti a Canaan risulti da una conquista militare improvvisa attuata da un gruppo omogeneo di tribù provenienti dall’est, portatrici di un’identità etnica e religiosa già costituita, di impianto israelita o ebraico, e decise a soppiantare gli abitanti del paese destinati a essere dominati da loro. Gli storici concordano sul fatto che la presenza israelita sia stata il compimento di un lungo processo di gestazione sociale, politica e religiosa, che ha comportato la fusione di elementi «allogeni» cananei e di elementi «stranieri» provenienti da altrove; questi hanno finito «per prendere coscienza della loro identità comune, in quanto “nuovo popolo” […]. Un popolo composto da elementi di origini disparate, che, come tutti riconoscono, impiegherà molto tempo prima di forgiarsi un’identità “israelita” comune e di accettare di farsi guidare dai suoi giudici e dai suoi profeti sulla via tracciata da Mosè e da Giosuè» (Abtibol, 2015, pp. 6-7).

Il popolo in movimento

 La difficoltà nel tracciare una storia delle origini della civiltà degli ebrei che abbia la funzione di distinguere la tradizione mitica dalla ricostruzione attraverso le fonti è connessa anche alla seconda chiave di lettura attraverso cui si può affrontare lo studio: gli ebrei sono un popolo in continuo movimento, con un legame molto particolare con la terra. Infatti, l’idea della terra promessa sostituisce a livello identitario la mancanza di una territorialità fisica di riferimento, di un luogo di stanzialità.

Esilio, migrazione, deportazione, diaspora sono parole chiave necessarie per leggere la storia degli ebrei in senso longitudinale.

Fin dalle origini, infatti, le peregrinazioni di questo popolo, che, come è stato sottolineato, deriva già da una convergenza migratoria di gruppi etnici differenti verso lo stesso luogo, sono pressoché continue. La prima deportazione risale al regno di Gioacchino ed è conseguenza dell’assedio di Gerusalemme da parte dei babilonesi, nel 597. L’esilio al di fuori della terra di Canaan continua anche dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 587. Durante tale periodo di cattività in terra di Babilonia molti ebrei tentano la fuga verso l’Egitto, dove a partire dal 583 gruppi e famiglie si stanziano in veste di profughi. Il ritorno dalla prigionia babilonese sarà consentito solo dopo la conquista persiana: nel 538 Ciro approverà un decreto atto non solo a restituire agli ebrei la Palestina, che era parte della conquista in quanto annessa al regno di Babilonia, ma anche a liberalizzare i culti proibiti dai babilonesi. Da ciò ebbe avvio la ricostruzione del secondo tempio di Gerusalemme, tra il 520 e il 515 a.C. (Albertz, 2009).

Una parte della storiografia ebraica retrodata la diaspora proprio al periodo della cosiddetta cattività babilonese. La data del 70 d.C., corrispondente alla prima rivolta contro i Romani che avevano reso la Giudea provincia nel 6 d.C., dopo decenni di clientelato, non è che uno dei punti di accelerazione della dispersione degli ebrei verso le terre della Mesopotamia e in alcune zone del Mediterraneo orientale. Molti più ebrei emigrarono a Babilonia nel 135 d.C., dopo la seconda rivolta antiromana.

Secondo Cassio Dione, infatti, i Romani inflissero una sanguinosa sconfitta agli ebrei, che avevano avviato la guerriglia per motivi religiosi e identitari legati alla necessità di sfuggire alla romanizzazione forzata che l’imperatore Adriano stava imponendo alla provincia. La Giudea venne letteralmente ridotta a un deserto, Gerusalemme diventò colonia romana e fu occupata da nuovi coloni che impedirono ai precedenti abitanti di rientrare in città, pena la morte. La rivolta di Bar Kokheba segna l’inizio della grande diaspora, che si conclude solo intorno all’VIII secolo d.C., quando gli Ottomani applicarono leggi restrittive nei confronti della mobilità che limitarono così ulteriori migrazioni (Graizel, 1984).

La mobilità e il radicamento alla terra non materiale ma ideale e simbolico sono elementi identitari e connotanti riscontrabili in tutta la storia degli ebrei. Secondo lo storico Potok (2007), la diaspora del popolo ebraico non attraversa solo popoli e terre, ma anche differenti concezioni del mondo, del divino e della società, in un continuo confronto destinato a incidere sulle identità degli uni e degli altri.

È un elemento che di fatto costruisce intrecci e relazioni: come è stato precedentemente illustrato, diaspore ed esili diffondono la presenza ebraica nel vicino oriente. Qui, nel lungo periodo, essi si trovano ad incrociare le loro vicende con quelle di altri popoli e civiltà: tra il VI e il VII secolo d.C. si realizza l’incontro (e lo scontro) con l’impero bizantino, all’interno del quale inizia a strutturarsi quell’antigiudaismo cristiano che rappresenterà uno dei filoni della persecuzione antiebraica.

A partire dal 638 d.C., con la conquista da parte dei musulmani che arrivano fino a Gerusalemme, si avviano i contatti con l’impero ottomano e dunque con l’islam. Tale convivenza è interessante proprio sul piano dei rapporti, soprattutto se comparati con quelli di altri popoli dominatori. Agli ebrei sotto il dominio islamico fu inflitta meno violenza fisica rispetto a quella provata sotto il dominio cristiano occidentale; una ragione di ciò può essere nel fatto che l’Islam, a differenza del Cristianesimo, non necessitava di formarsi un’identità separata dall’Ebraismo: gli ebrei erano una minaccia meno forte per i musulmani che non per i cristiani, durante il Medioevo. Casi isolati di persecuzione in verità accaddero, ma questo non cambia il fatto che gli ebrei siano stati trattati in maniera adeguata. Il mito degli ebrei maltrattati nei domini musulmani è un classico esempio di abuso pubblico della storia, costruito ad arte e utilizzato per supportare posizioni politiche (Cohen & Udovitch, 1989). In realtà in alcuni territori controllati dagli arabi, come la Spagna tra XI e XII secolo, si realizzò una fusione tra ebrei e musulmani dettata da motivi economici, professionali, commerciali, ma anche antropologici, tanto da dare vita ad una vera e propria cultura giudeo-arabica (Rustow, 2014).

Il popolo del libro e delle parole

Le vicende legate a diaspora, erranza ed esilio si connettono ad una ulteriore chiave di lettura attraverso la quale leggere la storia del popolo ebraico: quella che lo riconosce come popolo del libro.

La distruzione del tempio e la negazione di una terra sulla quale vivere e nella quale riconoscersi portarono ad elaborare una strategia di sopravvivenza identitaria legata alla tradizione culturale, alla scrittura: la produzione di uno scritto sacro, nei momenti più difficili, fu ricetta per continuare a vivere. In luogo dello stato infatti esisteva il libro, che divenne una sorta di patria portatile (Brenner, 2009): il libro sostituisce la terra. Per confermare tale affermazione è opportuno capire come avvenne la scrittura della Torah, ovvero dei primi cinque libri della Bibbia chiamati anche, secondo la dizione greca, Pentateuco. La maggior parte degli storici sostiene che tale redazione avvenne nel corso dell’esilio babilonese, anche se la tradizione ne assegna l’autorialità a Mosè, retrodatandola al XIII secolo, periodo in cui, sempre secondo la tradizione biblica, il profeta condusse i Leviti nella terra di Canaan. Ciò che è interessante rilevare nella dizione tradizionale è l’ordine che Dio impartì a Mosè, consistente non nella diffusione o nella divulgazione, ma nella scrittura dei suoi insegnamenti. La Torah, infatti, contiene la visione filosofico-religiosa dell’ebraismo alternata a precetti, leggi e norme di comportamento da seguire, scritti in forma di narrazione, di racconto.

Era importante dunque avere una parola scritta, che potesse fissare sulla pagina la storia, le leggi, le credenze di un popolo per cui la terra poteva essere solo una promessa o un’idea.

L’importanza della parola scritta fu evidente anche nella redazione del Talmud, iniziata dopo il 70 d.C. per sanare le contraddizioni tra legge scritta e tradizioni e interpretazioni orali osservate nelle differenti comunità postdiasporiche. Il testo nasce come una esegesi ufficiale del Pentateuco, che comprendeva anche la raccolta di appunti e note degli allievi del tempio dispersi in vari territori dopo la diaspora.

A partire dal 200 d.C. i rabbini scrissero la Mishnah, ovvero la parte normativa del Talmud, che fissava in maniera definitiva la parte orale della tradizione legislativa ebraica, fino ad allora imparata a memoria e ripetuta attraverso il tempo e le generazioni.

La centralità del libro e della scrittura nella tradizione ebraica fa sì che la linea etnica propria degli ebrei sia una linea non di sangue, ma di testo, e rende gli ebrei il popolo delle parole (Oz & Oz-Salzberger, 2013).

La necessità di enumerare e scrivere le catene genealogiche conferma l’affidamento alla parola scritta della propria memoria di discendenza, così come delle proprie prassi quotidiane, dei comportamenti attesi. La cultura ebraica è infatti una cultura basata sui testi, non sull’oralità, in cui l’obbligo scolastico precoce e prolungato testimonia l’importanza data alle competenze di lettura e scrittura e a chi le detiene in maniera magistrale, ovvero il rabbino, investito di un potere ad un tempo intellettuale, politico e religioso.

La stessa Alleanza, il patto stretto con Dio, è un patto di parole, affidato al decalogo e alle leggi della Torah, un patto che in nuce contiene l’idea di nazione.

Se il fondamento nazionale deriva da un patto fatto con una divinità, non è possibile ignorare come la dimensione religiosa sia al pari di quella etnica elemento unificatore e identitario connotante il popolo ebraico. L’unità, infatti, in mancanza di un centro geografico e di una ascendenza etnica omogenea e comune, viene garantita dalla sovrastruttura religiosa: il calendario delle festività, i riti quotidiani, le prescrizioni, gli obblighi.

La compattezza religiosa del primo popolo monoteista del mondo, tuttavia, si determina tardi, a partire dal primo millennio a.C., con grande difficoltà: la commistione con la popolazione egizia, infatti, aveva portato ad una contaminazione tra religioni e l’abbandono dei culti egizi è piuttosto laborioso. Ne parla la Bibbia, sotto la metafora dei quaranta anni di peregrinazione nel deserto prima che il popolo ebraico riuscisse a raggiungere, dall’Egitto, la terra promessa: in realtà non vi è traccia, sul piano delle fonti, di tale presenza e l’interpretazione più accettata di tale narrazione è legata al consolidamento dell’unità religiosa, non a caso unita fortemente all’idea della ricerca di una terra. Tale consolidamento è dovuto soprattutto alla scrittura, in quanto i testi sacri unificano e dettagliano principi filosofici e prassi di vita quotidiana che diventeranno identitari per la popolazione ebraica. Altro elemento unificatore, più tardivo, sarà la nascita del Cristianesimo: il rifiuto o la confutazione della Torah presenti nelle predicazioni di Gesù Cristo segnano la cesura tra le due religioni. Gli ebrei trovano identità anche nell’antagonismo con i cristiani, nel riconoscersi altri, differenti, depositari della vera, originaria fede.

Identità negata o negativa

 Le prospettive attraverso cui è possibile leggere la storia degli ebrei non si esauriscono nelle letture sopra proposte: il popolo in cammino, il popolo del libro, il popolo di Dio, ma danno conto anche di visioni meno consuete o connotate al negativo che una parte della storiografia ha voluto proporre.

Interessante è analizzare la posizione di Shlomo Sand, il quale parla di invenzione del popolo ebraico (Sand, 2010) affermando che è impensabile poter affermare l’esistenza di una identità etnica e biologica comune per un popolo dalle origini composite e variegate.

L’interpretazione di Sand è tuttavia più politica che storica: essendo egli antisionista e antisovranista, sostiene che l’idea di popolo, unitamente a quella di nazione, è una costruzione ideologica ascrivibile al sionismo del XIX secolo, su cui viene costruito il mito delle origini e che tende a legittimare l’esistenza dello stato israeliano a partire dalla cosiddetta legge del ritorno, focalizzata su due elementi: la lettura letterale della Bibbia e la Shoah, intesa come momento collettivo di unificazione e di riconoscimento.

Per le sue posizioni antisioniste, la storiografia prodotta da Sand viene da più lati strumentalizzata in senso antisraeliano ma anche antisemita ed è diventata, purtroppo, una delle fonti di giustificazione per i vari revisionismi e negazionismi propri del XXI secolo.

Il nodo della persecuzione e del pregiudizio resta purtroppo una delle chiavi di lettura più evidenti nella lunga storia del popolo ebraico, ovviamente potenziata nel Novecento dalla tragedia della Shoah.

Tuttavia, anche per studiare la Shoah nella sua dimensione storica e non esclusivamente emotiva, come spesso avviene per via di trattazioni frettolose o determinate esclusivamente da urgenze proprie del calendario civile, è necessario un inquadramento molto preciso e approfondito della tematica del pregiudizio e delle varie forme nelle quali esso nel tempo si è manifestato (Pentucci, 2019).

Secondo la storiografia, l’emancipazione del mondo ebraico e il suo inserimento a pieno titolo nella società moderna e contemporanea hanno favorito nuovi paradossi. Il successo di alcuni nel mondo ha trasformato gli ebrei in tanti Rothschild, mentre la militanza di numerosi altri all’interno del movimento rivoluzionario marxista li ha resi invisi alla borghesia retriva (Calimani, 2010). Inoltre, è bene comprendere come le forme di persecuzione antiebraica si siano connotate a partire dalla percezione e dalle giustificazioni dei persecutori in forme differenti di antigiudaismo, antisemitismo, antisionismo.

Il primo termine ha una matrice religiosa, non distinta tuttavia da quella etnica, vista anche la già citata commistione tra queste due dimensioni nel riconoscimento dell’identità ebraica: rappresenta l’odio e la persecuzione da parte della chiesa di Roma nei confronti dell’ebraismo rabbinico di epoca post-biblica dettata principalmente dal mancato riconoscimento, da parte degli ebrei, di Gesù come Messia e in termini più semplicistici e quindi più facilmente diffondibili in termini di propaganda, dell’identificazione degli ebrei come il popolo deicida.

L’antisemitismo invece nasce alla fine dell’Ottocento ed ha una connotazione biologica e razziale (Caffiero, 2017, p. 431), quella cavalcata da Hitler negli anni Trenta per avviare il suo progetto di sterminio. Tuttavia, le radici di questo tipo di visione sono profonde e risalgono alle persecuzioni spagnole del XVI secolo che intrecciano le motivazioni religiose con quelle propriamente etniche.

Rimandando alla letteratura sul tema una disamina più approfondita della storia del pregiudizio (Stefani, 2004), resta da capire quali possano essere le conseguenze di tale lettura dominante: il rischio, concretamente evidente nella didattica, è quello di relegare gli ebrei e la loro storia al ruolo esclusivo di vittime, senza mettere in evidenza i molteplici apporti dati alla storia generale.

Per questo può essere interessante approcciare il recente filone storiografico in base al quale il Novecento non è semplicemente il secolo della Shoah, quindi della barbarie e della disumanizzazione, ma può essere definito il secolo degli ebrei. Ne danno conto da un lato Yuri Sleztkine (2011), storico di Berkeley, il quale afferma che la propensione al nomadismo e ad un’economia legata non al possesso di beni ma ai flussi di denaro e di merci fanno del popolo ebraico un popolo estremamente moderno, paradigmatico per la società novecentesca, caratterizzata dal nomadismo terziario, ovvero dall’abitudine alla mobilità determinata dalla ricerca di occasioni professionali migliori, innovative e globali.

Altrettanto interessante è la lettura di Martin Gilbert (2002), il quale ripercorre, anche con una ricca documentazione fotografica, la contemporaneità e le modalità attraverso cui gli ebrei hanno influito su di essa. Nonostante la Shoah, gli ebrei hanno rivoluzionato il Novecento (Goldkorn, 2019).

Gli stili culturali e intellettuali oggi sono transnazionali. Ci si sposta da Amsterdam a New York, da Parigi a Roma, con la stessa facilità con cui un ebreo nel Medioevo si spostava da una comunità in Polonia a un’altra in Francia (Waltzer, 2000): con la loro apparente non appartenenza ad alcun luogo fisso, con l’alienazione che ne deriva, gli ebrei hanno tracciato il solco del secolo. Sono stati i primi a capire che non occorre avere radici nella terra e che un filosofo rende più di un ingegnere (Diner, 2007).

Il Novecento è stato un secolo “di sradicamento, di abbandoni ed esili”. Un secolo della amara vittoria degli ebrei quindi, dato che l’esilio è una condizione naturale alla fine del Millennio, anzi, “anche la Torah è un luogo di esilio. Perché tutti noi siamo ospiti di questo pianeta” (Steiner, 2012, p. 24).

 Conclusioni

 Al termine di questa disamina delle possibili strade che a livello storiografico potrebbero consentire di affrontare lo studio della storia degli ebrei in maniera meno episodica e più approfondita, rispetto ad esempio alle proposte editoriali, quale proposta didattica potrebbe emergere?

Il repertorio sulla storia degli ebrei si presta ad essere cornice e contestualizzazione per percorsi di storia locale, che partendo dalle numerose tracce che la comunità ebraica ha lasciato e mantiene sul nostro territorio si prestano ad avvicinare gli studenti alla scoperta e alla ricostruzione di momenti significativi della storia.

La storia locale ha infatti due potenzialità: è una storia prossima, dal punto di vista geografico, quindi avvicina l’esperienza storica al vissuto degli alunni, anche dei più piccoli ed è, di conseguenza, una storia che ha lasciato tracce facilmente reperibili e visibili, accessibili con brevi e sostenibili ricerche da parte dei docenti.

Archivi locali, luoghi di memoria, testimonianza possono dunque sostenere percorsi didattici efficaci, all’interno dei quali si attivi il processo presente-passato-presente, indispensabile per rendere significativo lo studio della storia.

 

 

 

Bibliografia

 

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