Oltre la Shoah: storia degli ebrei nel Novecento, di Maila Pentucci
da “Il Bollettino di Clio” n. 11-12/2019 Sul Novecento
Maila Pentucci, Università degli Studi di Macerata
Abstract: Nel percorso storico insegnato a scuola e nella sua trasposizione da manuale, il popolo ebraico viene menzionato a più riprese, ma sempre in maniera occasionale, fino al 1933, quando l’avvio della persecuzione antiebraica su larga scala da parte di Hitler li rende protagonisti nel panorama della storia mondiale, anche se in una visione esclusivamente vittimaria.
In realtà gli ebrei attraversano la storia generale mondiale con continuità: proprio la dimensione a-territoriale di questo popolo, evidenziata dalla diaspora ma già presente fin dal periodo antico (quello grosso modo corrispondente alle vicende bibliche), fa sì che essi nel corso dei secoli attraversino la storia di altri popoli incrociando momenti – chiave della storia mondiale.
Una ricostruzione storica solida e coerente potrebbe contribuire a leggere alcune caratteristiche che connotano il popolo ebraico: le vicende degli ebrei dall’epoca antica a quella contemporanea si prestano per leggere la storia degli uomini come una storia di mobilità e di cammino. La società ebraica è il tipico esempio di società mercuriale: l’economia, la cultura e la storia politica si intersecano e offrono chiavi di lettura alternative e interessanti.
Il secolo ebraico
«L’Età moderna è l’Età ebraica, e il XX secolo, in particolare, è il Secolo ebraico. Nella modernizzazione si diventa tutti urbanizzati, mobili, eruditi, eloquenti, complicati dal punto di vista intellettuale, pignoli dal punto di vista fisico e flessibili dal punto di vista occupazionale. Si imparano a coltivare le persone e i simboli, non i campi o le mandrie. Si persegue la ricchezza mirando al sapere, il sapere mirando alla ricchezza e l’una cosa e l’altra mirando solo a esse. Si trasformano contadini e principi in mercanti e sacerdoti, al privilegio ereditato si sostituisce il prestigio acquisito, e si smantellano i ceti sociali a favore degli individui, delle famiglie nucleari e delle tribú che leggono libri (le nazioni). Nella modernizzazione, detto altrimenti, si diventa tutti ebrei» (Slezkine, 2011, p. 10).
È questo l’incipit di una interessante monografia di Yuri Slezkine, docente di storia russa dell’Università di Berkley, il quale rilegge sia il Novecento che la storia del popolo ebraico attraverso un taglio di prospettiva inedito e particolare. Secondo lo storico, infatti, il Novecento si configura come secolo degli ebrei perché si afferma il trionfo della mercurialità da un lato e del nazionalismo dall’altro, elementi, entrambi, di cui gli ebrei sono interpreti ed esempi emblematici. Essi infatti hanno dovuto sviluppare, nel corso della loro lunga storia nomade, abilità legate al commercio e alle transazioni di denaro che li ha associati alla figura del mercante e del mercenario ad un tempo (entrambi sostantivi derivanti dal latino merx, merce, appunto) ma li ha anche resi estremamente moderni, veri precursori di una società, quella novecentesca, caratterizzata dal nomadismo terziario, ovvero dall’abitudine alla mobilità determinata dalla ricerca di occasioni professionali migliori, innovative e globali. Lo sviluppo, tipico del Novecento, di un mercato non più familista, ma anonimo, legato all’intraprendenza dell’individuo e privo di addentellati sociali è stato influenzato dalle relazioni economiche transculturali attivate dagli ebrei: l’ebreo abituato a trattare con tutti e a confrontarsi con gli estranei sul piano delle trattative e degli scambi diventa il modello di individuo più adatto per il mondo nuovo.
Transitando dal piano economico a quello politico, la società novecentesca è inoltre quella in cui si presenta un modello di nazionalismo moderno, legato soprattutto alle dinamiche migratorie sempre più intense e transnazionali: chi appartiene ad una nazione, indipendentemente del ruolo e della classe sociale che vi riveste, fa della nazione il germe del principio di identità e di comunità, per sentirsi comunque a casa anche lontano dalla propria terra di origine, anche se effettivamente residente in un luogo di immigrazione. Il mito della terra promessa è un’ottima chiave di lettura per interpretare quel sentimento in base al quale ogni paese da cui si parte una novella Gerusalemme a cui sperare di tornare.
Non solo Auschwitz
La visione di Slezkine rispetto alla storia del Novecento nel suo rapporto con gli ebrei (o viceversa) è decisamente molto particolare e fortemente connotata e personale, ma è utile perché consente di capire che un cambio di prospettiva è possibile, se non addirittura auspicabile, per uscire da una connessione quasi deterministica che lega il Novecento agli ebrei per via del paradigma Auschwitz, e al disvelamento che esso provoca rispetto alla barbarie imperante nell’umanità, rispetto alla consapevolezza che l’individuo esiste in quanto nullità, e alla conferma della «norma filosofica della pura identità come morte» (Adorno, 1975, p. 327).
Slezkine non dimentica di certo la Shoah e la persecuzione antiebraica messa in atto da Hitler, anzi la enumera tra le motivazioni a sostegno della sua tesi: le vicende sopra citate hanno connotato il Novecento rispetto alle categorie di bene e male, di vittima e carnefice. Se i nazisti sono diventati la canonizzazione del male assoluto, così gli ebrei hanno assunto quella dimensione di vittime che ne denota universalmente e globalmente il loro essere in quanto popolo. Tuttavia, se Auschwitz può essere riconosciuto come spartiacque della storia, l’identità del popolo ebraico non può essere limitata alla tragedia della Shoah, nonostante essa, nella sua dimensione di indicibilità e di unicità sia stata scelta come uno dei miti fondanti e legittimanti dello stato di Israele dopo il 1948, un mito negativo e astorico che nella sua enormità tende a cancellare o a coprire le altre innumerevoli caratteristiche, vicende, relazioni, che rendono la storia degli ebrei davvero un unicum nel contesto della storia globale, non solo per il loro essere vittime, capri espiatori per la storia del mondo (Calimani, 2014).
Poste tali premesse, emergono due logiche in base a cui appare necessario guardare la storia degli ebrei nel Novecento. Da un lato è impossibile parlare degli ebrei solo in riferimento ad un determinato tempo e a un determinato spazio della storia: come spesso accade nelle prassi didattiche gli ebrei spuntano fuori dalle maglie della storia nel 1933, ovvero quando Hitler inizia a organizzare la soluzione finale e avvia il genocidio come prassi sistematica e programmatica. In realtà, anche per comprendere le vicende relative alla persecuzione è necessaria la contestualizzazione nella storia profondissima.
Dall’altro è importante superare la visione esclusivamente vittimaria della storia degli ebrei proponendo letture e prospettive alternative, similmente paradigmatiche, che possono aiutare a dare una visione globale, di lungo periodo e spazialmente ampia e diversificata, della complessa storia del popolo ebraico.
Va infatti detto che una ricostruzione completa della storia generale degli ebrei, soprattutto in dimensione scolastica, è pressoché impossibile. Gli stessi storici che hanno tentato di fornirla hanno premesso la complessità di tale operazione, dovuta all’ambiguità delle fonti per quanto riguarda il periodo antico e alla necessaria comparazione tra fonti archeologiche (scarse e spesso legate alla storia di altre popolazioni) e mitiche (il racconto biblico) e all’estrema diffusione nello spazio che lega le vicende ebraiche indissolubilmente a quelle di molteplici altri popoli e terre per quanto riguarda tutta la storia postdiasporica.
Inoltre, raccontare la storia degli ebrei non è semplice, «perché quasi ovunque nel mondo non solo si sa qualcosa degli ebrei, ma spesso se ne ha un’opinione ben definita. Per un gruppo che non ha mai rappresentato più dell’1% della popolazione mondiale ciò può essere considerato un onore. Ma per lo storico è difficile mantenere il giusto distacco se si parla degli ebrei come del popolo di Dio o come del popolo deicida, quando si evoca l’intelletto ebraico o si attacca l’ebraismo finanziario internazionale, quando Israele è considerato il baluardo della civiltà all’interno della barbarie o condannato invece quale regime brutale in mezzo a un mondo di pace e serenità» (Brenner, 2009, p. X).
Ulteriore questione determinante per ricostruire la storia degli ebrei è quella storiografica. Infatti, ad una rapida disamina degli studi di carattere scientifico sulla storia ebraica, che si sviluppano a partire dalla fine del 1600, quelli tra XVII e XIX secolo sono appannaggio comunque di autori cristiani, che hanno focalizzato l’attenzione sui rapporti tra ebrei e mondo cristiano e sulla tematica della colpa. L’interesse degli storici ebrei è invece tardivo, nasce grazie agli stimoli dell’Illuminismo e in particolare, come affermano alcuni autori, dell’Haskalah, il movimento illuminista berlinese di stampo ebraico (Luzzatto Voghera, 2000). In ogni caso le esperienze della Rivoluzione francese e le idee egualitarie diffuse nell’età napoleonica, che portarono al fiorire di un impulso riformatore in seno alle comunità ebraiche tedesche, diedero impulso alla nascita di una vera e propria storiografia ebraica, con un proliferare di studi sia di storia generale sia focalizzati sull’età contemporanea. È possibile, in tale ambito, suddividere gli interessi storiografici in tre grandi aree: le questioni legate all’emancipazione e alla nuova identità degli ebrei a partire dai movimenti indipendentisti europei della seconda metà dell’Ottocento, tra cui il Risorgimento italiano; il tema della nazione autonoma in altre nazioni e l’esemplare condizione di nazione senza terra; l’approccio, più recente, della storiografia sionista volto a legittimare l’idea di Israele come meta ultima della diaspora (Toscano, 2010). Ovviamente a parte va menzionata la grande produzione storiografica sul tema nodale dell’età contemporanea e del Novecento in particolare, ovvero la Shoah.
Alcune istanze per la storia ebraica contemporanea
La complessità delle questioni storiche e storiografiche inerenti gli ebrei necessita dunque di fare delle scelte, di selezionare chiavi di lettura storiografiche che permettano focalizzazioni e ingrandimenti su determinate tematizzazioni o che riducano la scala di osservazione per offrire interpretazioni e ricostruzioni maggiormente fondate e problematizzate, in particolare in ambito didattico.
Se lo sguardo globale è indispensabile per capire le radici e la profondità della storia del popolo ebraico, la transcalarità può aiutare a contestualizzare e a ripercorrere la storia degli ebrei nel Novecento.
Una prima istanza a tal proposito riguarda una necessaria anticipazione. Non è possibile infatti comprendere le vicende novecentesche, compreso il tema fondamentale ed epocale della persecuzione, senza fermarsi sul processo di emancipazione, proprio dei secoli XVIII e XIX, come ci insegna anche la sopracitata specializzazione della storiografia ebraica.
Affermare in maniera superficiale e semplicistica che gli ebrei furono colti alla sprovvista dalle leggi antiebraiche dei totalitarismi e dal razzismo in esse connaturato, poiché i movimenti risorgimentali li avevano emancipati, ovvero resi cittadini alla pari profondamente implicati e coinvolti nella vita civile, politica, economica degli stati nei quali risiedevano, significa fare riduzionismo.
L’emancipazione infatti è un tema complesso e sfaccettato. Si parla intanto di due processi, rigenerazione ed emancipazione: «per rigenerazione si è soliti intendere quel processo per cui gli ebrei, se sottratti alle loro deplorevoli condizioni di vita nei ghetti, avrebbero avuto la possibilità di elevarsi in quanto esseri umani. Per emancipazione, invece, si intende l’equiparazione dell’ebreo al gentile, per mezzo della concessione o riconoscimento dei diritti civili e politici» (Militi, 2013, p. 3). Entrambi questi processi hanno radici profonde: derivano dal lungo dibattito filosofico sulla tolleranza iniziato nel 1500 e alimentato sul piano della tolleranza religiosa dalla nascita dei movimenti riformati coevi. I principi evocati soprattutto dall’epistola sulla tolleranza religiosa di John Locke e la revisione dei rapporti tra fede e politica, tra religione e governo degli stati, l’attenzione all’individualità del singolo all’interno delle comunità ebbero le prime applicazioni pratiche nel 1700. In tal senso l’emancipazione degli ebrei fu una richiesta tanto dell’élite intellettuale ebraica, quanto delle frange più progressiste della società cristiana. Questa duplicità non ha però solo effetti positivi e pacificatori tra cristiani ed ebrei. L’emancipazione infatti presenta, nella sua genesi e realizzazione, anche tratti di ambiguità. Il punto di vista dei non ebrei infatti era quello tipico dell’ancien Régime, secondo cui gli ebrei avrebbero dovuto abbracciare le cittadinanze nazionali in qualche modo abbandonando per esse il proprio essere ebrei. Sebbene il tema della conversione venga abbandonato e perseguito come residuo di un antigiudaismo clericale passatista, restava un equivoco di fondo. «La parità dei diritti civili e politici per gli ebrei veniva raramente addotta puramente in base all’eguaglianza naturale dei diritti dell’uomo, bensì l’enfasi era posta sugli effetti salutare che avrebbe avuto sulle comunità ebraiche» (Canepa, 1981, p. 46). In pratica ci si aspettava che gli ebrei emancipati, assimilati nelle comunità nazionali di residenza, si avvicinassero agli usi dei non ebrei, partendo dal presupposto che le presunte caratterizzazioni negative attribuite all’ebreo in epoca medievale e moderna (materialismo, ristrettezza mentale, consorteria) fossero un dato di fatto e che l’emancipazione rappresentasse dunque un miglioramento nei comportamenti e nel modo di essere, non un pieno godimento di diritti imprescindibili.
Dunque, l’emancipazione e il modo in cui si sviluppò, soprattutto sul piano del dibattito etico e filosofico, è decisiva per comprendere la persistenza di un antiebraismo di fondo nelle nazioni liberali e contestualizzare non solo e non tanto la persecuzione nazista e fascista, ma anche episodi quali l’affaire Dreyfus, o il cambiamento di paradigma proprio della Polonia otto-novecentesca, che da paradisus judaeorum divenne uno dei principali paesi antisemiti d’Europa (Tonini, 2008).
Una seconda istanza di natura storiografica riguarda la contestualizzazione della persecuzione antiebraica nella storia, istanza profondamente connessa alla prima, ovvero al problema dell’emancipazione: l’emancipazione del mondo ebraico e il suo inserimento a pieno titolo nella società moderna e contemporanea hanno favorito nuovi paradossi. «Il successo di alcuni nel mondo ha trasformato gli ebrei in tanti Rothschild, mentre la militanza di numerosi altri all’interno del movimento rivoluzionario marxista li ha resi invisi alla borghesia retriva» (Calimani, 2010, p. 59). Da questo assunto è possibile partire per ripercorrere la storia del pregiudizio contro gli ebrei e per chiarire concettualmente alcuni termini che spesso vengono utilizzati alternativamente senza una adeguata contestualizzazione: antiebraismo, antigiudaismo, antisemitismo e antisionismo fanno parte di un lessico del pregiudizio e dell’odio su cui molto si dibatte. Si può concordare sul fatto che questi termini non sono solo descrittivi, ma si propongono anche come una differenziazione concettuale e già interpretativa.
Per esempio antiebraismo sarebbe applicabile soltanto all’ostilità verso gli ebrei del mondo antico, greco e romano (Stefani, 2004); antigiudaismo invece andrebbe riferito all’avversione cristiana nei confronti dell’ebraismo rabbinico di epoca post-biblica e soprattutto all’ideologia, ispirata da motivi religiosi, relativa al mancato riconoscimento, da parte degli ebrei, di Gesù come Messia e alla sua uccisione; infine, antisemitismo deve essere ricondotto sia alla sua nascita recente, alla fine dell’Ottocento, sia ai suoi innovativi contenuti laici, secolarizzati e razziali, privi di precedenti. «In anni recenti la storiografia ha messo sempre più in discussione la netta distinzione postulata tra l’antigiudaismo, inteso come espressione di avversità teologica cristiana, e l’antisemitismo di stampo biologico e razziale, evidenziando continuità intrecci e reciproche influenze» (Caffiero, 2017, p. 431) fin dall’età moderna, per esempio dalla persecuzione antiebraica nella Spagna cattolica del 1500.
La prospettiva della storia del pregiudizio ci riporta, come terza istanza, alla contestualizzazione e storicizzazione della Shoah, evento periodizzante del Novecento e di tutta la storia dell’umanità ma non per questo avulso dalla dimensione storica, dallo spazio e dal tempo nei quali nasce ed è immerso.
Come sostiene Bidussa (2007) infatti la riflessione sulla Shoah è una palestra culturale per confrontarsi con la storia e con le sue eredità e al di là delle varie modalità di rappresentazione e memorializzazione a cui essa è soggetta, la sorveglianza degli eccessi di un abuso di tipo ideologico, sacralizzante, emotivo delle vicende spetta proprio alla storia ed alla storiografia (Pentucci, 2016). Parlare della Shoah in una dimensione storica non è dunque operazione semplice né scontata, nonostante le ridondanze in tale senso operate soprattutto in chiave memoriale nei luoghi e nei tempi deputati (e spesso a-storici) della celebrazione.
Per farlo entro una corretta visione sia storica che didattica, potrebbe essere opportuno, ancora una volta, ricorrere alla transcalarità e osservare le vicende della persecuzione antisemita a scala ridotta, nazionale e/o locale.
Contestualizzare la persecuzione in Italia per esempio, diventa una operazione, oltre che storica, anche etica e civile. Significa superare e confutare il mito degli Italiani brava gente e la diffusione di una percezione generalizzata rispetto alla Shoah e alla storia dello sterminio, soprattutto tra le giovani generazioni: una storia successa ad altri (gli ebrei) in un passato lontano non molto definito, in un altro luogo (in genere la Germania), per colpa di altri (i tedeschi o i nazisti). Si tratta di un «senso di alterità, di non appartenenza e non riconoscimento» (Pentucci, 2014, p. 142) che può invece essere decostruito lavorando sul qui e ora, sulle tracce che oggi possiamo vedere, in spazi vicini e familiari di una storia che è invece profondamento nostra.
A questo proposito è interessante la ricostruzione della persecuzione antiebraica fascista che fa Michele Sarfatti (2018), il quale sistematizza, entro precisi limiti cronologici, le fasi dell’antisemitismo di regime in Italia: la persecuzione della parità, avviata fin dal 1922 e dal fascismo sansepolcrista, la persecuzione dei diritti a partire dalla diminuzione e dalla negazione della cittadinanza, culminata con le leggi del 1938 ed infine la persecuzione delle vite, perpetrata non solo dall’alleato-occupante tedesco, ma anche dalla Repubblica Sociale. In tale periodo viene evidenziata, oltre alla dimensione della deportazione e della clandestinità, anche quella dell’apporto degli ebrei alla Resistenza, utile proprio per far emergere gli ebrei da una visione esclusivamente vittimaria e riportarli al centro delle vicende storico-politiche della nazione, di cui furono attori non solo in quanto ebrei, ma anche in quanto italiani.
Sul piano delle storie locali, l’internamento, le deportazioni, le connessioni tra fuga, rifugio e Resistenza consentono una ricostruzione accurata, anche grazie alle numerose fonti documentarie e ai luoghi della memoria sopravvissuti disponibili e accessibili praticamente su tutto il territorio italiano (Bressan, Cegna & Pentucci, 2017): un esercizio di interrogazione delle fonti scientifico e storicamente fondato, utile in chiave didattica per rivedere l’approccio alla storia più ampia e complessa degli ebrei.
Conclusioni
Per chiudere sembra opportuno un richiamo alla funzione della storia in chiave pedagogica e civile: studiare la storia serve a leggere il presente storicamente, problematizzando gli eventi e le questioni e conferendo loro quella profondità necessaria per sottrarli alla dimensione dell’opinione, del chiacchiericcio mediatico, dell’ideologizzazione, dell’uso e dell’abuso pubblico.
Ricostruire la storia generale degli ebrei esplorando le varie chiavi di lettura che la storiografia offre, soprattutto riguardo alla complessità del Novecento, è operazione indispensabile per una trasposizione didattica accorta, che vada oltre la storia episodica propria della manualistica e restituisca alla storia ebraica la complessità e l’interconnessione con le vicende di altri popoli che le è propria.
Bibliografia
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