Sproloquianti considerazioni di un maestro “cliota”, “diversamente giovane”, a margine del corso “La didattica della storia secondo Clio’92”
“I vecchi subiscon le ingiurie degli anni,
Non sanno distinguere il vero dai sogni,
I vecchi non sanno, nel loro pensiero,
Distinguer nei sogni il falso dal vero”
Il vecchio e il bambino
Brano di Francesco Guccini
Carissimo Ivo
mi sono preso qualche settimana prima di ringraziarti non solo per la conduzione in supplenza dell’ultimo appuntamento del corso, ma anche per i tuoi precedenti interventi “in itinere”, nello svolgimento dei quali hai messo a disposizione con generosità e sagacia le preziose puntualizzazioni che continui a elaborare in campo storiografico. Un tempo necessario per consentirmi di mettere a fuoco e sistematizzare alcune impressioni e sollecitazioni conseguenti alle diverse “lezioni” che sono riuscito a seguire, impressioni che mi permetto di scambiare con te, confidando nella tua consueta e amichevole disponibilità.
In primo luogo, mettendola in battuta, devo confessare che con gli appuntamenti del corso mi avete ringiovanito!
Grazie a te, dunque, e a Daniela, nonché a relatrici e relatori, con una riconoscenza sincera e duratura per avermi riportato indietro di dieci anni almeno, tanto è già lungo il tempo dal mio distacco dal contatto quotidiano col mondo scolastico. Infatti non mi è parso di incontrare difficoltà a seguire le diverse relazioni sentendomi sostanzialmente a mio agio in un territorio conosciuto, nel ri-percorrere il quale insieme a voi ritrovando molti volti e molte voci amiche, potevo disporre di riferimenti orientativi essenziali.
Tutto ciò, sempre in battuta, si potrebbe considerare come un’ulteriore prova a sostegno dell’affermazione “Il tempo non esiste”, il tuo incipit qui da noi, quasi una quarantina d’anni fa.
In effetti, l’esperienza didattica che mi ha più intrigato e che ho avvertito come convincente è stata quella della collega “montessoriana” che si è provata a coniugare Clio ‘92 con il potente impianto psicopedagogico di quel sistema educativo, forse proprio perché esercitando in piena responsabilità la funzione educativa di docente è riuscita a contemperare in modo armonico e non squilibrato a favore dell’uno o dell’altro, i due “corni” in gioco nella mediazione didattica, e cioè il sapere disciplinare con bambini/e in un contesto socioculturale di apprendimento. Laddove, viceversa, sovente la bilancia pende sempre più man mano si sale negli ordini scolastici, ma che, in ultima analisi, continua ad essere squilibrata lungo tutto il percorso scolastico, nella migliore delle ipotesi dalla parte del sapere disciplinare, se non dalla parte della vulgata del sapere enciclopedico nella maggior parte dei casi.
Una proposta, quella montessoriana, da ri-studiare bene, anche dal punto di vista storico, insieme a tante altre esperienze scolastiche innovative come quella di “Cenci-Casa laboratorio” di ricerca educativa ed artistica che si occupa di temi ecologici, interculturali e di inclusione il cui creatore, il maestro Franco Lorenzoni, ne riprende tante altre nel suo recentissimo libro “Educare controvento. Storie di maestre e maestri ribelli”.
Alla mia sensazione di “corto circuito temporale” penso abbiano contribuito in modo particolare anche le questioni che venivano poste dall’uditorio – colleghe e colleghi tutti apparentemente non alle prime armi dell’insegnamento o al primo incontro con Clio ‘92 – con domande non molto dissimili, in toni però molto più rassegnati, da quelle, come dire, di “una volta”, per usare una locuzione che non è nelle mie corde: “sacralità del manuale”, “esiguità delle ore”, “contenuti vincolanti del programma”, “demotivazione”, “disimpegno” e “impreparazione di ragazzi e ragazze”; “le prove di verifica”, “il confronto coi colleghi”; “i rapporti con le famiglie”. Espressioni di posizioni personali collocabili un po’ tra il “vorrei ma non posso” e il “potrei ma non voglio” nella pratica di un insegnamento della storia (e della geografia), sempre concepito e valutato, in modo più o meno consapevole, all’interno dei parametri fissati dal canone nazionale, euro e occidentalocentrico, quello della narrazione storica ufficiale vissuta professionalmente come unica fonte di legittimazione dell’insegnamento. Emblematica per me in tal senso l’espressione della collega del biennio delle superiori che pur aderendo convintamente alla proposta Clio ‘92 si lasciò andare ad uno sconsolato “… ma io domani devo fare le conseguenze delle guerre puniche”.
Non c’è ironia nelle mie parole. Anzi. Devo confessare, infatti, che ho avvertito molta autenticità nel tono “dolente” e “rassegnato” di gran parte delle domande e delle considerazioni che abbiamo sentito e che ho avvertito quasi come il sintomo di un “disagio”, di una “sofferenza” diffusa nel mondo scolastico – ho dei riscontri simili anche dai contatti con insegnanti che ho continuato ad avere in questo decennio –, una sorta di progressiva e complessiva “stanchezza” filosofica e di “smarrimento”, ben oltre le questioni della didattica specifica, circa il senso dell’essere insegnanti nella scuola e nel mondo di oggi.
Tutto ciò mi ha portato a ritrovare, in una sensazione come epidermica, il persistere, la pervasività, la cogenza di quella narrazione “all’europea” del passato che, avviatasi nella cosiddetta “età delle scoperte”, è andata a strutturarsi come canone storiografico generalizzato, in funzione di matrice generativa delle storie nazionali, nel corso dell’Ottocento, prodotto e fattore a un tempo del dominio europeo e capitalista planetario. Un canone che in Italia verrà a trovarsi per di più in rapporto sinergico con l’impianto scolastico gentiliano dei primi anni Venti del secolo scorso, quell’ impianto – secondo la definizione mussoliniana, « … la più fascista» delle riforme – ancora sostanzialmente tale oggi, a cento anni dalla sua creazione, proprio grazie alla coerenza filosofica, culturale e politica intra e infra questi due livelli, quello ideologico e quello di sistema scolastico, al di là di ogni tentativo di riforme grandi (ad es. media unica, riarticolazione dei percorsi universitari) o piccole (ad es. programmi/curricoli) di epoca repubblicana.
“Arriva lui! – potresti ribattere – Hai scoperto l’acqua calda alla tua età!” In effetti può essere così.
Tieni però in conto, il fatto che i tuoi interventi sono stati uno stimolo ad esplorare, tramite internet, gli spunti in essi contenuti. È stato così, per esempio, coi concetti di “territorializzazione” e di “antropocene”, nell’approfondimento dei quali ho incontrato il pensiero di intellettuali “transnazionali” alcuni dei quali, ho scoperto, essere ormai classici come il bengalese Dipesh Chakrabarty (“Provincializzare l’Europa”, “Il clima della storia, quattro tesi”, “Clima, Storia e Capitale”) e altri essere di nuova generazione, come il nigeriano Bayo Akomolafe (1) (Queste terre selvagge oltre lo steccato”) che, da prospettive diverse, esplicitano e sottolineano in modo serrato il carattere ideologico, culturale e politico, non solo della narrazione “all’europea” del passato, ma anche quello relativo a molte delle categorie e dei concetti costitutivi del nostro modo di pensare la disciplina storica stessa, compreso lo stesso concetto di “Antropocene” che col suo “noi umano universale” eclisserebbe i rapporti di dominio e delle diseguaglianze socioeconomiche, arrivando quest’ultimo studioso a coniare il termine/concetto alternativo di “Africocene”. (2)
Per intenderci, un po’ come quel che succede al ristorante quando quasi tutti mangiano la pizza e bevono birra, pochi l’aragosta con lo champagne ma, infine, si paga alla romana.
Tanto più che, a proposito della “storia come archeologia del presente”, ho incrociato uno storico dell’ambiente con incarichi di prestigio nel CNR, il campano Marco Armiero che, a sua volta, propone il termine di “Wasteocene” nel suo L’era degli scarti. Cronache dal wasteocene, la discarica globale, uscito prima in inglese e poi tradotto in italiano per Einaudi nel novembre 2021.
Mi soffermo su alcuni passaggi del suo ragionamento per chiarire ulteriormente a me stesso le questioni alle quali le sensazioni di cui ti ho detto mi hanno portato.
Armiero, infatti, dopo aver ripercorso la nascita e lo sviluppo del termine Antropocene e dei suoi innumerevoli derivati precisa che nel libro
“analizza l’Antropocene quale narrazione globale dell’attuale crisi ecologica” e che “alla fine, tutte queste denominazioni mirano a opporsi a quello che è stato percepito come il punto cieco della narrazione dell’Antropocene, cioè l’invisibilizzazione, o per lo meno la sottovalutazione, delle diseguaglianze sociali, storiche, etniche e di genere disseminate sui sentieri che hanno portato alla crisi ecologica contemporanea.”
A sostegno del proprio punto di vista precisa:
“Si può dire che al centro di ogni storia dell’Antropocene vi sia un qualche tipo di scarto. Sembra proprio che l’età degli umani sia segnata da una tecno-stratigrafia di materiali di scarto che si accumulano nella superficie terrestre. I rifiuti possono essere considerati dunque l’essenza dell’Antropocene, incarnando la capacità umana di influire sull’ambiente al punto da trasformarlo in una gigantesca discarica. È per questa ragione che Massimo De Angelis e io abbiamo proposto di chiamare la nuova epoca Wasteocene, traducibile più o meno come Scartocene o era degli scarti. (…) pensare in termini di Wasteocene significa inquadrare i rifiuti nell’azione che li produce, come un insieme di relazioni socio-ecologiche che creano persone e luoghi di scarto. (…) scartare significa decidere che cosa ha un valore e che cosa non lo ha.”
Mentre chiarisce il significato di “Wasteocene”, il termine/concetto alternativo da lui coniato:
“Il Wasteocene ripoliticizza la crisi socio-ecologica: scartare è una relazione, non una cosa o un errore a cui porre rimedio. In quanto meccanismo narrativo, il Wasteocene ha il potere di dire il vero, ossia di considerare le ingiustizie non come effetti collaterali, quasi invisibili, ma come l’elemento forte di un sistema che produce ricchezza e sicurezza attraverso l’alterizzazione di coloro che devono essere esclusi. (…) la produzione di persone e luoghi di scarto procede parallelamente alla costruzione di comunità esclusive globali. (…) Chiudendo le frontiere, i Paesi ricchi affermano forte e chiaro che esiste un confine tra chi ha un valore e chi può essere scartato.”
Nella prospettiva dello storico napoletano, dunque, la narrazione – intesa come meccanismo rappresentativo, sociocognitivo e politico a un tempo – nella sua complessità sistemica, è un elemento performativo essenziale, decisivo perché dice cosa, e soprattutto chi e cosa viene escluso o neutralizzato dalla narrazione dominante.
Infatti, Armiero, usando l’esempio del Vajont, propone un altro concetto, quello di guerriglia narrativa. (3)
“Rendere invisibile la violenza, normalizzare l’ingiustizia, cancellare qualunque narrazione alternativa: sono questi i pilastri delle narrazioni del Wasteocene. (…) i modi in cui raccontiamo il mondo influiscono sui modi in cui ne immaginiamo e costruiamo uno nuovo; (…) l’imposizione di narrazioni tossiche e di memorie addomesticate serve a neutralizzare e normalizzare il Wasteocene; la guerriglia narrativa, allora, serve a svelarlo e a smantellarne la logica fondata sullo scarto. (…) Le storie di resistenza esistono da sempre in diverse forme; la guerriglia narrativa dà semplicemente un nome al loro recupero, esplicitandone il carattere intrinsecamente antagonista e mostrando il volto repressivo della narrativa dominante.”
E cosa fanno pubblicazioni recenti come “La maledizione della noce moscata” di A. Ghosh, “Anarchia. L’inarrestabile ascesa della Compagnia delle Indie Orientali di W. Dalrymple (4) o, come quella meno recente de “I dannati senza terra. I genocidi dei popoli indigeni in Nord America e in Australasia” di L. Pegoraro(5) se non riportare alla luce aspetti del passato oscurati, trascurati o neutralizzati dalla rappresentazione “all’europea” affermatasi come versione “universale” della storia umana?
O quegli studi come “Breve storia della Terra (con noi dentro)” del paleoantropologo spagnolo Juan Luis Arsuaga (6) che, con l’aiuto della storica Milagros Algaba, ci dimostrano come, superando concezioni dicotomiche (natura/umano) e iperspecialismi disciplinari (storia naturale/storia umana, preistoria/storia) sia possibile e conveniente rappresentare scientificamente il nostro pianeta come un unico grande sistema formato da una serie di sfere interdipendenti tra loro. Visioni dicotomiche – che uno storico inglese Daniel Lord Smail nel suo libro Storia profonda, il cervello umano e l’origine della storia, – l’origine delle quali nella stessa narrazione consolidata della nostra storia riporta alle forme della mitologia ebraico-cristiana che fa iniziare il mondo intorno al 4.000 a.C. (7)
E, ancora, gli studi in prospettiva globale del passato in pubblicazioni come “L’impero del cotone. Una storia globale” di Sven Beckert (8) che attraverso il prisma della “bianca fibra” traccia in realtà la storia globale del capitalismo industriale nelle sue componenti fondamentali, non solo quelle economiche e tecnologiche, ma anche sociali, giuridiche, politiche, a partire da quello che lo storico nordamericano concettualizza come “capitalismo di guerra” riferendosi all’insieme dei processi di insediamento imperialista, conquista coloniale, espropriazione della terra, sfruttamento intensivo di forza lavoro schiavistica, che permetteranno al Regno Unito di controllare, già nei primi decenni del XIX secolo, il mercato mondiale del cotone.
“De te fabula narratur” mi verrebbe di chiosare.
Sintetizzando all’estremo: nuove mappe del passato da elaborare e mettere a disposizione di docenti, studenti e studentesse, con itinerari, siti e scansioni temporali, sguardi e strumenti decisamente diversi anche rispetto a quelli ufficiali delle Indicazioni ministeriali vigenti, pur con alcune loro aperture prospettiche che disarticolano parzialmente il canone tradizionale.
Per concludere non posso fare a meno di riandare da simili input, alle osservazioni di Frankopan (“Le Vie della seta. Una nuova storia del mondo”) sulle “falsità” che il canone storiografico tradizionale stabilisce come verità storiche imprescindibili e a quelle di Gruzinski (“La macchina del tempo. Quando l’Europa ha iniziato a scrivere la storia del mondo”) nel suo ripensare il mestiere dello storico, considerazioni che ho riportato a suo tempo nella recensione di alcune loro pubblicazioni.
Per tutte, una dello storico francese.
“Nel corso dei secoli, le èlites europee sono dunque pervenute a costruire il loro bastione eurocentrico esotizzando ed esorcizzando il resto del mondo che stavano invadendo. E le reazioni nazionali suscitate da tale colonizzazione non fanno che confermare l’universalizzazione di tale processo. Oggi la storia globale – sostanzialmente una Global History in versione nordamericana – riprende tale compito storicizzando quanto i nazionalismi e gli etnocentrismi hanno ignorato, lasciato cadere o rifiutato di affrontare.
Come reagire di fronte a questa riuscita colonizzazione delle memorie? Rigettarla radicalmente come si rigetterebbe l’occidentalizzazione e la mondializzazione, senza rendersi conto che essa è inestricabilmente associata alla nostra visione del mondo? Il fatto che i nostri valori non siano necessariamente universali, e che siano stati imposti con la violenza, non esclude che essi possano contribuire ad allontanare da un mondo globalizzato i mostri che lo minacciano. La storia “all’europea” ha ancora delle cose da dire, a condizione di rivisitarla e di valutarne i limiti: simile operazione presuppone una riconsiderazione critica delle origini della sua diffusione planetaria, dei suoi legami con tutte le forme di colonizzazione, il che è quanto si è accinti a effettuare. Tale storia – Las Casas, Motolinia, Pomar ce lo hanno dimostrato – si caratterizza altresì per un’apertura e un potenziale corrosivo di cui abbiamo più che mai bisogno”. (S. Gruzinski, op.cit. pag. 299)
Spunti che a me sembrerebbe decisivo ri-prendere e ri-proporre per arricchire di senso, di consapevolezza e di carica motivazionale, gli argomenti in risposta alle questioni poste da insegnanti spossati e sfiduciati, rivalorizzando il valore educativo del loro insegnamento attraverso la proposta di un pratica didattica consapevole del “potenziale corrosivo” cui accenna Gruzinski, abbinandola all’impiego dei potenti strumenti cognitivi che per altri versi la cultura storiografica “europea rivalutata e rivisitata nei suoi limiti” può offrire, quelli che tu nella tua instancabile ricerca focalizzi e rendi disponibili.
Concludo davvero (“alla buon’ora” dirai), magari con poca eleganza, riprendendo il finale della mia presentazione del lavoro dello storico francese.
“Le classi scolastiche di oggi e il nostro vissuto quotidiano sono costituiti da relazioni con una varietà di culture umane gran parte delle quali entrarono a comporre il caleidoscopio della storia umana a partire dagli scontri/incontri con quella degli Europei nel corso del XVI secolo. Gruzinski ci propone di interagire con queste nuove realtà con una rappresentazione più aperta e interconnessa dei mondi del passato che apra ad una immaginazione altrettanto aperta del futuro.
Una rappresentazione intrecciata e inclusiva in cui trovino spazi di interazione anche voci “altre e diverse”, recuperate e valorizzate da una storia “meticcia”, locale e globale a un tempo, “una storia più ampia e più umana” come nella dedica dell’ Apologia della storia che Marc Bloch fa a Lucien Febvre, e come quella praticata e proposta da Gruzinski che, emancipando i nativi dalla consueta rappresentazione in termini esclusivamente di vinti, in questa dimensione recupera il senso più alto del suo “mestiere”.
Una prospettiva “lungi-mirante” anche per ri-valorizzare, nel suo senso più alto, il mestiere degli/delle insegnanti che traguardino, attraverso percorsi di formazione/apprendimento della “geosociostoria” oltre la solita storia, nuovi mondi possibili?
Infine, il saluto con la formula usata dai commedianti dell’arte in chiusura della recita:
“se la commedia è stata noiosa e lo spettacolo di fastidio ben oltre la vostra sopportazione, da umilissimi servitori chiediamo venia e comprensione, porgendo le scuse e il grazie alle signorie vostre, illustrissime”.
Giulio Ghidotti
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- https://www.carmillaonline.com/2019/06/27/democrazie-genocidarie/
- https://books.google.it/books?id=PF2wEAAAQBAJ&printsec=copyright&redir_esc=y#v=onepage&q&f=false
- https://www.doppiozero.com/teocologia-i-peccati-dellimmaginario-ecologico
- https://www.lindiceonline.com/scienze-umane/storia/sven-beckert-limpero-del-cotone/